Gli estesi spazi desertici del sud degli Stati Uniti sono luoghi caratteristici dell’idea di America che il Cinema ha contribuito a esportare nel mondo: da Easy Rider fino ad arrivare a Paura e delirio a Las Vegas passando per Fratello dove sei, le sconfinate lande del sud degli Stati Uniti hanno fatto da scenografia per i generi più disparati, e con questo antologico Southbound – Autostrada per l’inferno la strada torna prepotentemente protagonista in un film horror, riallacciandosi alla florida tradizione degli anni 70.
Prodotto da Roxanne Benjamin, già responsabile delle antologie V/H/S e V/H/S 2, in Southbound – distribuito in home video da Midnight Factory – si alternano registi diversi (un collettivo nel caso del primo e dell’ultimo episodio) per cinque episodi, in cui vengono omaggiati tutti i filoni horror che hanno fatto grande il cinema di genere durante gli anni 70, con la strada a fungere da filo rosso per unirli tutti.
Nei cinque episodi di Southbound si possono trovare elementi presi da The Hitcher, dal più moderno Dal tramonto all’alba e addirittura da Hotel California degli Eagles; tutti i vari segmenti sono diretti mostrando uno spassionato amore verso il genere, nonostante alcuni risultino essere decisamente più riusciti di altri.
Scendendo nel particolare, il primo episodio, The Way Out diretto dal collettivo Radio Silence, è il migliore dell’antologia, e trasporta lo spettatore nella piccola realtà dei motel provinciali, lontani da qualsiasi contatto umano e dalla legge; contesto perfetto perché due criminali in fuga possano nascondersi, braccati da misteriose creature che sembrano uscite direttamente dalla mente di H. P. Lovecraft.
Degno di una menzione particolare è anche Jailbreak, girato da Patrick Horvath; quarto episodio dell’antologia, è il segmento più violento della pellicola, con soluzioni grafiche al limite del gore che palesano i richiami a un maestro del genere come Robert Rodriguez.
I restanti episodi dell’antologia, Siren diretto dalla stessa Roxanne Benjamin (in cui è presente la scena più forte dell’intero film), The Accident di David Bruckner e l’episodio di chiusura The way in sempre di Radio Silence (autori del segmento di apertura), non raggiungono la stessa presenza scenica dei due episodi prima citati, ma ciò nonostante sono ben girati e confezionati, sicuramente meglio di tanti horror mediocri che possono trovarsi in sala e girati con ben altri budget.
In un genere come quello horror, che sta vivendo negli ultimi anni una rigenerazione (si pensi a It, a Get out o anche a The Witch, tutte ottime pellicole uscite negli ultimi tre anni), la scelta di affidarsi alla narrazione antologica (tra l’altro già sperimentata nel genere anche per la televisione, con le varie stagioni di American Horror Story) può essere una freccia in più in una faretra che si sta piano piano riempiendo, riportando il genere in auge dopo anni di svilimento, e Southbound rappresenta in tal senso un’operazione comunque riuscita.