Quando a partire dal 1° maggio L’Isola dei Cani sarà distribuito nelle nostre sale da 20th Century Fox, purtroppo perderà il titolo originale che – a dispetto dell’apparente sovrapponibilità con quello tradotto in italiano – porta in sé la quintessenza della nuova opera di Wes Anderson. L’originale Isle of Dogs, infatti, si presta a un gioco che nasconde in piena luce quella che è quasi una dichiarazione programmatica del regista di Houston, dal momento che il suo suono è quasi lo stesso della frase «I love dogs».
I LOVE DOGS
Il film d’animazione presentato in anteprima nazionale al Lucca Film Festival e Europa Cinema 2018, infatti, è una vera e propria dichiarazione d’amore dell’iconico cineasta statunitense nei confronti del miglior amico dell’uomo, che, partendo dalla premessa estrema del tradimento dell’atavico ‘patto d’amicizia’ tra umani e cani, sembra volerci ricordare il valore della fiducia, dell’abnegazione e della generosità – in una prospettiva didascalica che invita a ribaltare il senso del plautino «homo homini lupus».
LA DEPORTAZIONE DEI CANI, AMICI TRADITI
Siamo in un ipotetico Giappone del 2037, in cui tutti i cani vengono deportati su un’isola fino ad allora utilizzata come discarica, in seguito a una misteriosa influenza canina. Una misura tanto drastica quanto spietata, condotta senza alcun rispetto per i diritti degli animali (che, vista la situazione di emergenza, non risultano essere una priorità).
Abbandonati in mezzo alla spazzatura, cani di ogni tipo – che hanno caratterizzazioni quasi umane e tra loro parlano una propria lingua che, nella finzione narrativa, viene resa con l’inglese (da noi sarà ovviamente l’italiano) – sono costretti a reinventarsi e a costruire una propria società, coalizzandosi in branchi tra i quali collaborazione e competizione si alternano imprevedibilmente. Fianco a fianco possiamo così trovare lo scontroso capobranco Chief (nella versione originale con la voce di Bryan Cranston), il complottista Rex (doppiato da Edward Norton), la mascotte sportiva Boss (Bill Murray), l’affascinante Duke (Jeff Goldblum) e la star decaduta King (Bob Babalan).
Sarà proprio questo ben assortito gruppo di amici che si ritroverà ad aiutare Atari Kobayashi, un determinato dodicenne taciturno e dai modi marziali che piomberà sull’isola alla ricerca del suo fido compagno Spots, dopo aver dirottato un piccolo velivolo.
UN ANDERSON DIVERSO DAL SOLITO
Ne L’Isola dei Cani si alternano due linee narrative: quella della ‘ricerca del compagno disperso’, che vede protagonista il cast principale, e quella del ‘grande colpo’ per boicottare un presunto complotto alle fondamenta della deportazione canina, relegata a un nutrito gruppo di comprimari che intravediamo appena (ma tra i quali risulta memorabile la Tracy Walker doppiata da Greta Gerwig). Se la trama secondaria risulta particolarmente nelle corde di Anderson, che si è già misurato con le varianti del genere caper più volte in passato, il percorso principale è invece tanto peculiare da costringere il cineasta a rinunciare alla quasi totalità dei tratti distintivi che rendono tanto stilizzato il suo cinema.
A differenza del precedente Fantastic Mr. Fox (2009), questo ritorno di Wes Anderson alla stop motion si libera tanto da molte delle costanti di linguaggio che definiscono generalmente la sua poetica quanto da quell’amarezza che, con colpi di scena negativi, finisce per rendere complessi molti dei suoi lavori migliori. Tra i film di Anderson, infatti, Isle of Dogs è probabilmente il film ‘meno alla Anderson’, tanto da rivelarsi un racconto intelligente che però somiglia più a un’opera didascalica per bambini.
IL SETTING GIAPPONESE: PERCHÉ FUNZIONA E PERCHÉ NO
La scelta del contesto giapponese è interessante, anche se a ben vedere è un caso di appropriazione culturale piuttosto grossolano, in cui la cultura nipponica viene ricostruita con un fiorire incontrollato di stereotipi. La scelta di un contesto tanto lontano dal nostro non appare tuttavia un mero capriccio stilistico, ma fortemente funzionale alla storia prima di tutto per la componente linguistica. I cani e gli uomini hanno linguaggi veri e propri, che però risultano suoni incomprensibili alle orecchie dell’altra specie. È proprio l’incomprensibilità della lingua giapponese (non tradotta) per lo spettatore occidentale medio l’espediente più interessante del film, che permette di empatizzare con i cani, dei quali comprendiamo ogni parola e come i quali troviamo intellegibile in linguaggio degli umani che li circondano.
I riferimenti al Giappone non sono motivati solo dall’espediente linguistico, ma anche – probabilmente – dalla gestione per noi inconcepibile che viene fatta in quelle terre dell’emergenza randagismo, che ebbe un’eco mediatica piuttosto rilevante in occidente con dei reportage di circa quattro anni fa (e da non confondere con molte bufale a tema). Il resoconto di cani e gatti che venivano gasati tra atroci sofferenze in un sistema semi-automatizzato (con tanto di nastri trasportatori) ha infatti fatto molto discutere, ed è impossibile non pensare che abbia avuto un suo peso nella creazione dell’opera di Anderson.
Un altro elemento del Giappone che ha un peso preponderante nel tono è l’elemento della grande riservatezza nell’esternazione delle emozioni, che se contribuisce a rendere peculiare l’insieme, al contempo finisce per rendere impossibile allo spettatore una vera empatia con il giovane Atari Kobayashi, che risulta a tratti eroico ma sempre decisamente antipatico.
In conclusione L’Isola dei Cani è un film sicuramente ricco di sentimenti e tematiche, che però – coerentemente con la riservatezza tipica del mondo nipponico – non si apre a una vera connessione con lo spettatore, lasciandolo quindi orfano di quel mondo ‘caldo’ e poetico cui Wes Anderson ci ha abituati. I livelli di lettura sono molti, e, come già accennavamo, la storia può tranquillamente esser traslata dal piano animale a quello umano. Rimane il fatto che l’esecuzione d’insieme è convincente, ma non abbastanza da far pensare che l’autore non si sia perso qualche pezzo per strada.