Tenendo bene a mente le problematiche ambientali cui la moderna Cina va incontro in nome del progresso (contribuisce al 30% delle emissioni mondiali di CO2), The Girl’s Spring di Gu Wei può sembrare come un mea culpa tardivo, una pellicola che attraverso il dramma privato di un uomo si propone di raccontare le difficoltà di un gigante in crescita che in nome di questa non si è fatta scrupolo, e continua a non farseli, a sacrificare il benessere e la salute dei propri cittadini.
In soli 74 minuti, la pellicola di Gu Wei presentata in anteprima al Lucca Film Festival Europa e Cinema 2018 segue l’ascesa e il successivo disfacimento della vita del contadino Zhang Qiang (Huowei Min), che dopo aver salvato la vita dell’uomo d’affari Cheng Gang (Wang Xiaoyi) si ritrova in affari con lo stesso, diventando il vice presidente della cartiera sulla quale Gang decide di investire negli otto anni seguenti. Un successo, quello di Zhang Oiang, che richiede una contropartita salata, in quanto i liquami della cartiera vengono scaricati nei presi del suo villaggio, avvelenandone la terra e facendo ammalare le sue due figlie.
The Girl’s Spring è un dramma rurale sulle contraddizioni della Cina, pronta a sacrificare il benessere dei propri cittadini in nome del profitto e della crescita, in cui il conflitto fra le due anime del gigante asiatico, quella delle megalopoli e quella della campagna si incontrano e inevitabilmente scontrano, il tutto girato con un suggestivo bianco e nero ad alto contrasto (valorizzato dal direttore della fotografia Zengshan con la conversione innaturale tipica dei filtri a infrarosso) che non fa che esaltare la spaccatura fra la città e la campagna, depredata e avvelenata dalle necessità della prima.
La regia di Gu Wei è sorprendente e gioca molto sui campi lunghi e lunghissimi per dare allo spettatore un senso di straniamento (affidati a grandangoli e droni) riguardo all’azione in scena e facendolo concentrare piuttosto sulla devastazione rurale. The Girl’s Spring è una pellicola comunque non esente da difetti: nonostante sia perfetta nella forma e nel confezionamento, la sceneggiatura (curata dallo stesso Gu Wei) risulta sempre troppo didascalica e auto esplicativa, affidandosi a inutili giri di parole in momenti in cui sarebbe bastato far parlare le immagini, affidandosi a una serie di stereotipi naive importati dall’occidente e legati soprattutto alla caratterizzazione degli antagonisti che sembrano usciti direttamente da un telefilm poliziesco pomeridiano.
La macchina narrativa è inoltre troppo spesso legata a semplicistiche concatenazioni di cause ed effetti, risultando spesso prevedibile. Nonostante questo, il lavoro dietro la macchina da presa di Gu Wei è di altissimo livello, riuscendo a creare una pellicola che, sebbene non sia esente da difetti, ha una compostezza marziale nella forma, e in alcuni momenti riesce a raccontare tramite la brutalità delle inquadrature una delle tante facce dello sviluppo economico cinese.