È paradossale come nel 2018, in un’era di interconnessione e con Zuckerberg al banco degli imputati per aver violato la privacy di milioni di utenti, un artista come Banksy riesca a mantenere il più completo anonimato (o almeno così pare). Questa situazione, già strana di suo, è resa ancora più strana dal fatto che la street art del nativo di Bristol (questa una delle pochissime informazioni a riguardo) riesce a essere erga omnes proprio grazie al canale comunicativo fornito da internet e social network.
È proprio grazie a questa peculiarità che Banksy ha realizzato una delle più ardite installazioni artistiche moderne, scegliendo come proprio atelier New York, culla della street art. Nel 2013, per tutto il mese di ottobre l’anonimo artista ha installato un’opera diversa ogni giorno in diversi angoli della città, trasformando la Grande Mela e la sua gente in una gigantesca galleria di arte moderna; un mese incredibile raccontato splendidamente nel documentario Banksy Does New York, diretto da Chris Moukarbel prodotto da HBO Documentary Film in collaborazione con Sky Arte, distribuito da Wanted Cinema e proiettato durante il Lucca Film Festival e Europa Cinema 2018.
Il documentario segue attraverso gli occhi di critici, curiosi e appassionati l’iter creativo dello street artist in un nascondino lungo tutta New York, un gioco in cui gli unici indizi vengono postati il giorno precedente su Instagram e in cui le azioni e le reazioni della gente accorsa a vedere la nuova installazione diventano, nel bene e nel male, parte dell’opera stessa: i lavori dell’artista di Bristol con la sua feroce satira fungono come un grimaldello che permette allo spettatore di vedere il meglio e il peggio degli abitanti della Grande Mela, le cui reazioni viaggiano tra la più gretta avidità (come chiedere 5 dollari per poter fotografare un’installazione) al più commovente altruismo, come chi compresa la potenzialità e il valore artistico dei lavori decide di proteggerli con teche di plexiglas, in modo che siano difesi non solo da ladri, ma anche dagli altri writer, divisi idealmente tra spotjocking, writer di basso livello che per ottenere visibilità appongono il proprio tag (firma) accanto ai lavori di un’artista decisamente più conosciuto, e la Wet Wipe Gang, che si fa carico di preservare i lavori artistici cancellando le scritte in sovrapposizione.
Questo spaccato del mondo dello street art, nettamente diviso in due riguardo a Banksy (reo per i suoi detrattori di aver esportato la propria arte e averla resa universale) è un altro dei grandi meriti del documentario di Moukarbel, rendendo merito al movimento Save 5 pointz che si è battuto inutilmente per salvare una vera e propria galleria d’arte moderna a cielo aperto dedicata alla street art a Long Island, tristemente sostituita da un complesso residenziale elitario. Il sostegno dell’artista di Bristol, la cui filosofia può essere riassunta nella volontà di riportare l’arte tra la gente rendendola pubblica non poteva mancare, e a questa battaglia sono state dedicate diverse installazioni durante il mese in cui Banksy ha idealmente tenuto New York sotto scacco, e in definitiva è stato il senso ultimo dell’evento battezzato Better Out Than In: donare alla gente la propria idea di arte trasformando gli abitanti di New York in una vera e propria installazione.