Silvia Ebreul e Marcello Izzo sono gli head writer de Il Cacciatore, serie andata in onda a marzo su Rai2 e selezionata per la prima edizione della rassegna dedicata alla televisione Canneseries.
Buongiorno Silvia, buongiorno Marcello. A chi l’onore di illustrarci il pitch de Il Cacciatore?
Marcello Izzo: Una stagione di lotta e caccia alla mafia lunga sette anni, la vicenda mai raccontata di un uomo sbagliato al posto giusto. Un uomo partito senza vocazione, che realizza qualcosa che non aveva mai pensato di poter fare: catturare i più pericolosi criminali della storia d’Italia.
La serie è liberamente tratta da un libro di Alfonso Sabella (Cacciatore di Mafiosi, N.d.R.), che firma anche il soggetto. Cosa c’era al suo interno di così interessante da farci una serie?
Silvia Ebreul: C’era tantissimo cinema. In primo luogo ci ha colpito la capacità di Alfonso di ricostruire eventi realmente accaduti attraverso immagini fortissime. Per fare un esempio: l’immagine di Bagarella che spia i magistrati dalla finestra viene direttamente dal libro. Colpisce il ragionamento del mafioso, che si trasferisce nel palazzo di fronte perché pensa sia il luogo più sicuro, il posto dove nessuno lo andrà a cercare e allo stesso tempo sfrutta la postazione per sorvegliare il nemico. Puro cinema. Ma c’erano anche personaggi incredibili raccontati nei dettagli: Mico Farinella, i Brusca…
Izzo: …e lo stesso Alfonso. Oltre a mettere in primo piano molte peculiarità dei mafiosi, nel libro si respira il fascino del “PM da marciapiede” – il suo soprannome – negli aneddoti delle catture incredibili che si era inventato, dai tubi segati per recuperare le pasticche di uno spacciatore al drone ante litteram per riprendere i mafiosi. E sempre connesso al suo personaggio, ci colpiva la metafora della caccia che proveniva dalle sue precedenti esperienze da avvocato.
Ebreul: Nella serie l’abbiamo accennato in alcune scene. In pochi anni di carriera avvocatesca Alfonso era diventato il beniamino dei cacciatori, perché attraverso cavilli curiosi e sempre diversi riusciva a far riavere ai suoi clienti l’unica cosa a cui tenevano davvero: il loro fucile. Frequentandoli assiduamente, studiandoli, ha assorbito qualche tratto della loro natura. Da questa esperienza ci siamo mossi per concepire i nostri flashback.
Izzo: A questo tema della caccia si affiancava un altro elemento importante: l’ossessione di un uomo che non era partito con la vocazione. Mi sono segnato una frase di Alfonso: “Io non pensavo di fare questo lavoro.” Effettivamente il suo obiettivo era tutt’altro: voleva diventare il più giovane costituzionalista d’Italia. E dato che la strada più breve per la Corte Costituzionale era la magistratura, l’ha percorsa arrivando alla Procura di Termini Imerese e da lì dove sappiamo. Approfondendo il tema dell’ossessione e innestandolo sulla caccia siamo arrivati al nostro protagonista, che non era più Alfonso ma un personaggio liberamente ispirato a lui che abbiamo chiamato Saverio Barone. Un giovane PM con l’ambizione di prendere tutti i mafiosi, uno dopo l’altro.
Dopo la lettura come si è sviluppato il progetto?
Ebreul: Abbiamo letto il libro nel 2010 (otto anni fa!) e quasi subito siamo riusciti a contattare Alfonso per parlare con lui di un adattamento.
Izzo: Il confronto con lui è stato fondamentale, perché non era scontato che ci dicesse “Sì, facciamolo.” Di sicuro è stata importante la nostra intenzione: volevamo raccontare la sua storia perché tra le righe comunicava un messaggio forte: la mafia si può battere. Lì ci siamo trovati. Ancora più decisivo è stato lo sviluppo: Alfonso ci ha dato la possibilità di lavorare liberamente sul personaggio. Di spingere su pregi e difetti, di esaltarne l’umanità.
Ebreul: Nel frattempo eravamo in pieno 2011 e ormai eravamo convinti di avere in mano una serie. L’abbiamo proposta a tante produzioni, abbiamo ricevuto altrettanti rifiuti ma non ci siamo mai arresi. Essendo convinti che il progetto fosse valido, ognuno di questi stop ci faceva rimettere mano al concept dicendo: “Ok, lo riscrivo meglio.” A posteriori, credo di poter dire che nel nostro lavoro non è mai finita. Che la differenza tra un progetto che va e uno che non va, è la tua capacità di non fermarti.
A che punto si è inserita una produzione?
Izzo: Nel 2014, quando siamo approdati a Cross. Ricordo la prima riunione con Rosario Rinaldo quando ci ha detto che contava su di noi per scrivere la serie. Questa è stata una iniezione di fiducia vitale.
A proposito di scrittura: qual è il vostro metodo?
Izzo: Condividiamo tutto, faticosamente (sorride). A parte gli scherzi: scrivere insieme ad una persona che ti conosce bene è un grande vantaggio, perché si crea una condivisione emotiva che rende il progetto migliore. Per cui procediamo insieme nella fase ideativa, nello sviluppo, nella revisione, in tutto. Anche se nella ricerca Silvia è più forte.
Ebreul: Sì, magari io sono più topino da biblioteca ma soggetti, scalette e linee narrative le elaboriamo davvero insieme. Ormai siamo arrivati a un livello tale che non ci ricordiamo più chi ha scritto cosa. Se dovessi ripescare una “mia” linea di dialogo di cui vado orgogliosa… Forse quella con cui si conclude il secondo episodio. Raccontiamo che nessuno dei rapitori vuole gestire il piccolo Di Matteo. Tocca a Brusca, che avvicina il ragazzino in catene, e si sente dire: “Ciao, Giovanni.”
Izzo: Confermo: al di là delle apparenze, io sono quello più romantico mentre lei è la dura. Tra l’altro trattando di mafia ci siamo trovati a dover scrivere parecchie scene crude. La cosa divertente era vedere in riunione degli editor rivolgersi a me, dicendo: “Beh… qui ci sei andato giù pesante…”. A quel punto io alzavo le mani, indicando l’unica vera responsabile.
Ebreul: In realtà vengono benissimo pure a lui. Ora però devi dirci la battuta di cui vai orgoglioso.
Izzo: La dice Mazza, il PM che dopo una cattura ricorda a Saverio una scommessa fatta. “Mi avevi detto che l’avremmo preso in tre ore. Invece ci abbiamo messo tre giorni e tre ore. Perdisti!”
Quali erano le vostre fonti di ispirazione durante l’elaborazione del progetto?
Ebreul: Non parlerei di ispirazione, nel senso che non ci sono state serie o film che ci hanno suggerito una strada specifica. Ovviamente mentre scrivevamo guardavamo e leggevamo opere che ci piacevano e che avevano elementi affini al nostro progetto. True Detective, alcuni film noir americani contemporanei, tutto James Ellroy. In qualche modo anche noi ci muovevamo in quella zona oscura del poliziesco, sia per atmosfere che per personaggi.
Izzo: Sì, è un contesto che piace a entrambi. Quando siamo partiti ci abbeveravamo alla fonte di The Shield, Sons of Anarchy, 24, che evidentemente non hanno nulla a che fare con la nostra serie, eppure…
Ebreul: Posso citare Marcello? (sorride) Per spiegare meglio cosa volevamo fare, diceva sempre che il nostro fine è mettere in scena protagonisti che vivono mentre succedono delle cose di mafia, non il contrario. Per fortuna ci siamo riusciti.
Izzo: Confermo. Talvolta la tradizione gloriosa del cinema sociale italiano è stata presa in carico per realizzare film o serie con una precisa volontà di ricostruzione storica. Noi non siamo esperti di mafia, o giornalisti di mafia, e avevamo un altro obiettivo: intrattenere con una storia umana. Inoltre, crediamo che innestare su temi sociali una bella dose di racconto di genere renda le storie migliori.
Il racconto di mafia è un genere molto amato dal pubblico italiano e proprio per questo molto sfruttato. Qual è stato il vostro approccio?
Izzo: Sicuramente volevamo sentirci liberi di raccontare degli uomini. Ad esempio abbiamo scelto di non utilizzare i veri nomi dei magistrati del Pool proprio per avere maggiore libertà di sviscerare l’umanità dei nostri protagonisti. Inoltre ci interessava dare un cambio di prospettiva già presente nel libro di Alfonso. Siamo abituati a storie in cui i protagonisti sono braccati dalla mafia, che è un’entità tremenda e invisibile, in agguato. Invece ne Il Cacciatore sono i mafiosi a essere le prede, ad avere paura.
Ebreul: Aggiungo che la collaborazione diretta di Alfonso, che è una fonte inesauribile di aneddoti, ci ha aiutato a costruire la serie soprattutto per il racconto delle vite dei mafiosi. Le linee narrative che li riguardavano erano uno tra i compiti più delicati, dovevamo immaginare le loro esistenze a partire dagli atti processuali e poco altro. Possiamo dire di aver svolto un lavoro simile ai magistrati, in fondo anche noi siamo partiti dai dettagli per arrivare a un quadro generale.
Volendo descrivere la serie, è il racconto della guerra tra un Potere in disfacimento (la mafia) e un Potere ferito gravemente, con voglia di riscatto (il Pool). Avevate chiara questa impostazione dall’inizio o è venuta in corso d’opera?
Izzo: All’inizio la serie era molto più incentrata sul Pool Antimafia. Il ritratto della caccia era messo in scena attraverso magistrati che avevano un compito improbo: scovare e arrestare persone considerate all’epoca letteralmente introvabili. Strada facendo, studiando le vicende personali dei mafiosi, lentamente siamo arrivati a questa struttura. Era un pallino personale di Rosario, ci diceva: “Entriamo nelle case delle prede!” D’altra parte, non ci interessava creare empatia su questi personaggi, al contrario.
Ebreul: Su questo eravamo sicuri dall’inizio, perciò, per ognuno dei mafiosi della nostra storia, ci siamo serviti di freeze-frame con una “presentazione” che segnala nome, soprannome e numero di omicidi. Leggere nero su bianco il numero dei morti dà una immediata sensazione di fastidio ed è giusto che sia così. Solo quando leggi che Giovanni Brusca ha commesso più di 150 omicidi capisci davvero che è stato uno dei serial killer più pericolosi della storia. E quando Bagarella piange per la moglie, raccontiamo le lacrime di una iena che soffre per un amore egoistico. Un uomo che dopo aver torturato dei ventenni per otto ore, dopo aver scoperto che con loro si è sbagliato, li uccide e li scioglie nell’acido archiviando la faccenda con un’alzata di spalle.
A proposito del tono: come vi siete interfacciati con Stefano Lodovichi e Davide Marengo, i due registi chiamati a mettere in scena ciò che avevate scritto?
Izzo: Non conoscevamo personalmente Stefano, che è stata una scelta di Cross condivisa con RAI, ma avevamo visto e apprezzato In Fondo al Bosco, in modo particolare per la direzione degli attori. Con lui abbiamo condiviso la writer’s room – ha scritto due episodi della serie – per cui già in fase di sviluppo respiravamo intenzioni e possibilità di regia. Poi il lavoro di squadra è proseguito con Davide Marengo.
Ebreul: Un’altra persona che è stata la fortuna del progetto è stato Fabio Paladini, il produttore creativo di Cross, che era presente durante la famosa prima riunione con Rosario e poi ha seguito Il Cacciatore fino alla fine, partecipando alle riprese e quindi tutelando al meglio le intenzioni della scrittura. Peraltro Fabio è tra gli sceneggiatori della serie, insieme a Marzio Paoltroni e Stefano Lodovichi. Da head writer siamo soddisfatti della compattezza del lavoro, anche se siamo consci che si può fare ancora meglio.
Izzo: Sì, tra la fase di scrittura e la realizzazione c’è stato un passaggio importante. Il nostro tono probabilmente era più cupo e su questo sono intervenuti Stefano e Davide, bilanciando con un gusto pop che ha migliorato ulteriormente la serie.
In qualità di head writer, quali erano le vostre competenze al di là della scrittura?
Izzo: Non abbiamo partecipato alla scelta del cast. Devo dire che nel corso dello sviluppo non ci eravamo fatti idee specifiche sul coinvolgimento di un/a dato/a attore/attrice, quindi ci siamo affidati al talento e al fiuto di Stefano e Davide. Quando abbiamo saputo che Saverio sarebbe stato interpretato da Francesco Montanari siamo stati molto contenti e ancora più fiduciosi.
Ebreul: La cosa sorprendente ed emozionante di cui ci siamo accorti, una volta conosciuti meglio gli attori che avrebbero interpretato la serie, è che molti avevano note emotive simili ai personaggi. Questo ci ha dato ulteriore sicurezza della bontà del lavoro svolto dal casting.
Izzo: Per quanto riguarda le altre fasi, siamo stati coinvolti nella fase finale di montaggio quando si trattava di “impacchettare” al meglio la serie: continuità narrativa, raccordi, intenzioni, connessioni, su questo abbiamo dato il nostro contributo. In merito alla promozione de Il Cacciatore, invece, abbiamo pagato lo scotto che tutti gli sceneggiatori e autori pagano in Italia. Forse è una mala abitudine culturale del nostro paese che tende ad identificare l’opera con il regista per cui in organi di stampa come Repubblica, Corriere, ma anche riviste di settore come CIAK, i nomi degli autori non trovano posto. Fa male dopo tutto il lavoro che hai fatto. Su questo abbiamo sentito la vicinanza dei colleghi, ci ha fatto molto piacere sapere che la categoria è unita e sensibile all’argomento.
In queste settimane di messa in onda avete potuto guardare Il Cacciatore dalla parte del pubblico. Avete notato qualcosa a cui prima non avevate fatto caso?
Ebreul: Vederlo in prima serata in TV è stata una grandissima emozione. Finalmente ti godi l’opera dopo mesi in cui sei passata dal guardarla sullo schermo di un computer, allo schermo di un iPad e poi in una saletta su grande schermo, sempre con un unico obiettivo: capire se funziona. Adesso viene il difficile: tornare a guardarlo per individuare dove migliorare, cercando di essere obiettivi e di proseguire nel lavoro.
Izzo: Al momento, se devo trovare qualcosa di migliorabile, indico alcune ellissi drammaturgiche: penso che si possano integrare meglio le storie orizzontali e le verticali di puntata. D’altra parte, sono sorpreso e ammirato dalla linea sentimentale tra Saverio e Giada, su cui abbiamo speso tantissime energie. È stata una linea narrativa così sofferta, cambiata, re-impastata, che vederla funzionare sullo schermo mi ha dato grande soddisfazione.
Ebreul: Approfitto di questa annotazione per dare una nota di merito ai nostri attori. Si vede che hanno amato i loro personaggi.
Alla luce dell’esperienza di Cannes, dove si trova Il Cacciatore nell’universo della serialità internazionale?
Izzo: Speriamo e crediamo che possa competere all’estero. La serie ha una sua identità, un’identità italiana pronta a varcare i confini. In questo può aiutare il giusto riconoscimento a Cannes di Francesco Montanari come migliore attore che si è dannato per questo personaggio, è dimagrito di otto chili, ha imparato il siciliano… Proprio con la stessa ossessione/passione che avrebbe avuto Saverio Barone.
Ora che avete maturato esperienze di scrittura sia per cinema e di televisione, trovate più analogie o differenze?
Izzo: Per me sono due lavori diversi. Per la scrittura di qualsiasi tipologia di serie, c’è così tanto spazio di racconto in più…
Ebreul: Sono d’accordo. Per scrivere una serie hai bisogno di molte più strutture. Impalcature che reggano un tot di puntate, personaggi che si svelano strada facendo, archi lunghi. Sono due dimensioni indipendenti.
Vi va di segnalarci film o serie che avete visto recentemente e vi sono rimaste impresse?
Ebreul: Ho trovato Mindhunter meravigliosa. A partire dalla scrittura, con un teaser breve che fa molta paura e poi linee verticali dedicate a specifici serial killer, di cui hai timore ma che hai voglia di seguire, per capirli. È scritta incredibilmente bene, con dialoghi brillanti.
Izzo: Per me American Vandal. Parla di adolescenti ma oltre a raccontarli molto meglio di tante altre serie che vanno per la maggiore sul tema, per me ha sottotesti potentissimi di critica sociale. Tra l’altro è costruita come un thriller, in maniera accurata.
WGI si batte perché venga riconosciuta agli sceneggiatori l’importanza del proprio ruolo, mentre spesso anche nei Festival di cinema i loro nomi non vengono menzionati. Cosa ne pensi?
Ebreul: Sì, succede proprio così. Personalmente penso che lo sceneggiatore si appassioni al lavoro mettendoci dentro tutto se stesso. In ciò che scrive ci sono le proprie budella. E nonostante il risultato finale sia comunque un’elaborazione complessa, il prodotto di una squadra, credo che lo spettatore abbia il diritto di conoscere chi è l’autore di quella storia.
Izzo: Mi ricollego al dibattito di questi giorni nella nostra categoria per sottolineare il valore dell’idea. Credo che riportare al centro del discorso il fondamentale apporto dell’idea, darle il giusto peso, possa aiutarci sul piano economico e sul riconoscimento del nostro lavoro. Chi diceva “Il cinema si fa con qualcuno, contro qualcuno”? Concordo con lui, ma se devo individuare il nostro nemico non credo siano i registi, perché siamo sulla stessa barca. Percepisco in giro un’unità mai sentita prima, è il momento di fare squadra.
(intervista a cura di Vincenzo Sangiorgio)