Sulla scia dell’effetto nostalgia che sta contagiando sempre di più piccolo e grande schermo, nel 2016 Netflix ha ordinato il reboot di uno show che negli anni Sessanta è stato il punto di riferimento di milioni di famiglie americane: stiamo parlando di Lost In Space, prodotto della CBS che in tre stagioni è diventato un vero e proprio cult prima di essere cancellato nel 1968. Sviluppata dagli sceneggiatori Matt Sazama e Burk Sharpless (Gods Of Egypt, Dracula Untold e The Last Witch Hunter), la serie sci-fi del web service è un progetto molto più convenzionale rispetto ai tipici standard di Netflix: la mossa, deliberatamente studiata dai vertici dell’azienda di Los Gatos, non ha però avuto un riscontro così soddisfacente.
UNA FAMIGLIA AFFRONTA LE INSIDIE DELLO SPAZIO
Lost In Space racconta un futuro prossimo (precisamente il 2048) dove la colonizzazione dello spazio è diventata una realtà di fatto. In questo scenario la famiglia Robinson, capitanata da John (Toby Stephens, Black Sails) e Maureen Robinson (Molly Parker, House Of Cards), è stata selezionata per cominciare una nuova vita al di fuori del pianeta Terra (flagellata dall’impatto di un corpo celeste). Un incidente della loro navicella però li porta fuori rotta, costringendo i cinque membri della famiglia a dover affrontare le insidie di una terra aliena sconosciuta.
QUANDO LO SCI-FI DIVENTA GENERALISTA
Netflix negli anni è diventata famosa per la sua capacità di proporre show innovativi ma, dopo il via libera agli ingenti piani di investimenti (che, ricordiamo, ammontano a 8 miliardi di dollari solo nel 2018 per la produzione di contenuti originali), la piattaforma streaming è ormai talmente popolare da abbracciare un pubblico eterogeneo. Ecco perché Lost In Space, prodotto concepito prevalentemente per le famiglie (proprio come l’originale degli anni Sessanta), rientra perfettamente nei programmi della società del CEO Reed Hastings: già dando una prima occhiata al trailer, era difficile aspettarsi qualcosa di completamente diverso.
Visivamente la serie è decisamente suggestiva: il set canadese (Lost In Space è stata girata nella Columbia Britannica) dà perfettamente l’idea dell’immensità dei territori alieni simili al nostro pianeta, grazie al lavoro dell’esperto Neil Marshall (Doomsday, The Descent, Hannibal, Game Of Thrones e Westworld) e degli altri registi che si sono alternati (tra cui anche Vincenzo Natali). I mezzi economici a disposizione sono ovviamente superiori rispetto al Lost In Space della CBS ma non sempre vengono sfruttati nel migliore dei modi, in particolare nell’utilizzo della computer grafica che in alcuni frangenti non è all’altezza delle aspettative (nonostante un buon budget non siamo certo ai livelli di eccellenza dei grandissimi blockbuster hollywoodiani di oggi).
Tuttavia i veri problemi di Lost In Space risiedono nello script, il suo grande tallone d’Achille: il duo Sazama/Sharpless, supervisionato dallo showrunner Zack Estrin, ha sempre preso parte a progetti artisticamente mediocri (tutti popcorn movie dimenticabili) ma aveva finalmente l’occasione di dimostrare il proprio valore in televisione. La sensazione però che emerge dopo la visione dei dieci episodi è quella di uno show studiato a tavolino, senza anima: i due sceneggiatori provano a far leva su alcuni elementi di facile presa come le numerose ispirazioni dal cinema popolare (legate soprattutto ai film di Steven Spielberg e a Star Wars), ma la soluzione toglie a Lost In Space la possibilità di acquisire una propria personalità distintiva.
Anche nella scrittura dei personaggi Sazama e Sharpless risulta povera di idee: tra antagonisti monodimensionali (la dottoressa Smith interpretata da Parker Posey) e ruoli stereotipati (come il Don West di Ignacio Serricchio, una sorta di Han Solo for dummies), non emerge nessun protagonista particolarmente carismatico. L’intreccio narrativo, più che alla fantascienza, guarda al family drama e, da questo punto di vista, uno sviluppo più coraggioso delle dinamiche all’interno della famiglia Robinson avrebbe dato alla serie un’impronta più moderna ma anche i cambiamenti operati rispetto all’originario Lost In Space (un esempio su tutti, la figlia di colore dei Robinson) rispondono ad una logica commerciale votata al politically correct più spinto.
Ancora non si hanno notizie su un eventuale rinnovo ma Lost In Space, per rispettare la sua mission di serie generalista, offre un’idea di televisione piuttosto vecchia, e non regala alcuno spunto veramente interessante, non riuscendo a stare al passo con i tempi.