La vicenda cui è liberamente ispirato il film è una delle più cruente della cronaca nera italiana (anche se sembrano esserci discrepanze tra le testimonianze e le evidenze autoptiche), e vede come protagonista un toelettatore per cani pregiudicato (poi assurto alle cronache come Canaro della Magliana) che nella Roma del 1988 pare si vendicò di un ex pugile e pregiudicato da cui era sempre stato vessato rinchiudendolo con uno stratagemma in una gabbia per cani, tramortendolo con un colpo alla testa e poi sottoponendolo a 7 ore di torture, ustioni e mutilazioni prima di togliergli la vita.
NON CERCATE IL MORBOSO: NON LO TROVERETE
Di quelle torture disumane (la cui descrizione farebbe impallidire anche l’horror più esplicito) nel nuovo film di Matteo Garrone non c’è traccia, e quelle 7 ore di delirio finiscono per risolversi nella finzione in una scena neanche troppo lunga, che non è il fulcro della pellicola, ma una parte di un percorso che si evolve in tutti i 102 minuti di durata. A compensare l’assenza del morboso, però, ritroviamo una costruzione narrativa tanto minimale quanto inarrestabile, che fa della timide mitezza di uno straordinario protagonista la forza dirompente su cui si regge l’intera opera.
QUEI TERRITORI ASSOLUTI DEL MIGLIOR GARRONE
Dogman, accolto gloriosamente al Festival di Cannes (dove concorre per la Palma d’Oro), segna il ritorno del regista di Gomorra dietro la macchina da presa dopo la coraggiosa seppur imperfetta parentesi fantasy de Il Racconto dei Racconti e – pare – prima di un Pinocchio su cui aleggia per ora un certo scetticismo. La quintessenza della storia, che ancora una volta propone un’umanità debole e periferica in tutta la sua spietata e confusa disperazione, rimanda direttamente a quel folgorante L’Imbalsamatore con cui per Garrone arrivò il grande successo, ma a ben vedere con la sua spiccata identità territoriale si ricollega alle pagine più memorabili del cinema del cineasta romano (dal Veneto di Primo Amore alla Campania di Reality e Gomorra).
UN CAST PERFETTO CON UN PROTAGONISTA INCREDIBILE
Il personaggio del Canaro è qui reinterpretato da un incommensurabile Marcello Fonte (Marcello), attore decisamente poco noto che con la folgorante e grottesca bellezza del suo volto disarmonico, del suo sorriso impacciato, della sua voce alta e nasale e della sua fisicità modesta, diventa forse la miglior scelta di casting tra le tante fortunatissime operate da Garrone nella sua carriera. A fare da contrappunto ideale a questo piccolo uomo mite, troviamo in un perfetto rapporto di scala un torreggiante e trasformato Edoardo Pesce (Simoncino), la cui incredibile flessibilità interpretativa non smetteremo mai di elogiare e che qui si rivela indispensabile nel dare voce e corpo all’incarnazione di un tormento incontrollabile e sregolato. Al loro fianco uno sparuto cast di ottimi talenti, che annovera Francesco Acquaroli (Suburra – la serie), Aniello Arena (Reality) e Adamo Dionisi (Suburra).
LA POESIA DEGLI ULTIMI, TRA WESTERN E REVENGE MOVIE
Simoncino è un imponente tossicomane che sfrutta la propria stazza e violenza per imperversare nella piazza di una periferia romana di frontiera, quasi un moderno villaggio da western; l’incubo comune di una sparuta comunità tutta al maschile. Marcello, che pur ‘arrotonda’ con lo spaccio e qualche furterello, è invece un essere umano di straordinaria poesia, che ama con tutto se stesso i cani e la propria bambina e che, con la stessa totalizzante ossessione, cerca l’amore e l’approvazione dei suoi concittadini – compreso quel Simone che non perde occasione per umiliarlo o raggirarlo. Come vuole il luogo comune, però, nessuno è più spietato di chi ha tentato ogni strada per essere paziente, e quando sarà per Marcello il momento di ribellarsi a una vita di soprusi, la rivalsa sulla sua nemesi diventerà un modo per provare a riconquistare la stima della società, e con essa un equilibrio perduto.
QUANTO TALENTO TRA SCRIPT, FOTOGRAFIA, SCENEGGIATURA E COSTUMI
La sceneggiatura priva di ogni retorica scritta da Matteo Garrone insieme ai suoi immancabili Ugo Chiti e Massimo Gaudioso è ridotta all’osso, fa un lavoro impeccabile nel ritrarre il mondo emotivo del protagonista e ci accompagna lungo un arco evolutivo piuttosto semplice ed essenziale, fino a un finale aperto in cui – assieme alla strana impressione che manchino ancora una ventina di minuti di film – arriva la consapevolezza che quell’ultima inquadratura è il più efficace compendio di tutti i temi della storia.
A contribuire alla straordinarietà dell’esperienza filmica ci sono la superba fotografia di Nicolai Brüel (diversissima da quella dello storico DOP di Garrone Marco Onorato, defunto nel 2012, e da quella per niente Garroniana del Peter Suschitzky di Tale of Tales), che con il ritmico alternarsi di luce livida e a volte rosata della sera e luce calda e radente delle lampade a incandescenza, e con una composizione che ci fa perdere in lontani punti di fuga, trasforma quei palazzoni cadenti in una quinta sospesa nel tempo.
Fondamentale in tal senso anche la scenografia di Dimitri Capuani e Giovanna Cirianni, che rilegge Pinetamare di Castel Volturno come un palcoscenico fatto di cementi diruti, sabbia, piastrelle, pozzanghere, vecchie insegne e giostre abbandonate, e pure il costume design di Massimo Cantini Parrini.
UN CAPOLAVORO DI GARRONE
In conclusione Dogman è un lavoro di rara forza e bellezza, che in ogni singola scena ci ricorda perché negli anni abbiamo imparato a considerate Matteo Garrone di gran lunga uno dei più importanti registi del cinema italiano contemporaneo. La quintessenza della poetica dell’autore romano, nonché la dimostrazione che per i festival internazionali non esiste solo il racconto di quella povertà falsa e pelosa che piace a un certo cinema radical chic (ogni riferimento è puramente casuale), ma anche un mondo vero, fangoso e affaticato in cui gli scarti della società si affannano per prevaricare o essere amati.
In sala dal 17 maggio con 01 Distribution.