Presentato a Venezia lo scorso anno, The Third Murder (Sandome no Satsujin), film proiettato all’Asian Film Festival di Bologna, è il penultimo lavoro di Hirokazu Kore-eda, tornato alla ribalta negli ultimi giorni grazie alla vittoria della Palma d’Oro a Cannes per Shoplifters (Manbiki Kazoku).
LA RAPPRESENTAZIONE DI UN CASO GIUDIZIARIO COMPLESSO
L’avvocato Shigemori (Masaharu Fukuyama) viene assoldato per difendere il signor Misumi (uno straordinario Koji Yakusho), un uomo che rischia la pena di morte dopo aver confessato l’omicidio del proprio datore di lavoro. Shigemori capisce in fretta che la situazione in cui si trova è molto strana: infatti Misumi, nonostante abbia ammesso la colpevolezza, continua a cambiare la propria versione fino a dichiararsi innocente, mescolando in continuazione le carte in tavola.
KORE-EDA SI CIMENTA CON UN GENERE PER LUI INEDITO
The Third Murder mostra quindi un Kore-eda insolito alle prese con un genere per lui del tutto nuovo: il legal drama. Nonostante non venga utilizzato un vocabolario troppo tecnico, il lungometraggio risente di alcuni problemi tipici dei film giudiziari come la quasi totale mancanza di azione e il ritmo molto lento; nella parte centrale The Third Murder, in più momenti, ha un andamento davvero flemmatico, nonostante i dialoghi siano ben scritti.
Kore-eda riesce però a far scivolare all’interno della pellicola i temi cardine del suo cinema, continuando la sua indagine all’interno del nucleo familiare giapponese e l’analisi dell’incomunicabilità tra genitori e figli, viste però sotto una luce diversa. Da una parte ci sono quindi le indagini, che vengono tuttavia lasciate in secondo piano, mentre dall’altra ci sono invece le interazioni tra i personaggi principali; proprio loro, in ogni dialogo e in ogni confronto, sembrano allontanarsi sempre più dalla verità, quasi come se in fondo non interessi realmente a nessuno capire i motivi della morte del datore di lavoro di Misumi. Kore-eda mira a sottolineare come ogni character punti egoisticamente al proprio tornaconto sfruttando la posizione degli altri per far emergere la propria verità, anche se questa è lontanissima dalla realtà oggettiva dei fatti. Tutto ciò trasforma la pellicola in un’intricatissima matassa di bugie differenti impossibile da sbrogliare e quando Misumi si dichiara innocente durante l’udienza il castello di carte sembra crollare definitivamente, dal momento che, se ciò fosse vero, tutto il processo è basato sull’ennesima falsità.
Questo permette al regista di mettere in discussione anche tutto l’apparato giudiziario giapponese, mostrando senza censure l’atteggiamento di avvocati, giudici e procuratori che si preoccupano della carriera, della propria reputazione e del proprio tempo senza minimamente curarsi della giustizia. Nonostante stiano per condannare a morte un uomo che si è dichiarato innocente, si preoccupano più di risparmiare tempo piuttosto che scoprire la verità.
Kore-eda tenta dunque un nuovo approccio al proprio modo di fare cinema girando un film per lui insolito che, pur soffrendo nella parte centrale la mancanza di ritmo, è scritto molto bene ed è girato con una compostezza, un’eleganza ed un rigore sopraffini. Meravigliosa una delle sequenze di chiusura del lungometraggio, in cui Shigemori e Misumi si incontrano un’ultima volta: il dialogo ci viene presentato attraverso una soluzione registica superlativa in cui i riflessi di entrambi sul vetro che li divide arrivano a sovrapporsi, quasi a fondersi.