Sea Serpent (Baconaua in lingua originale) è l’ultimo film diretto dal filippino Joseph Israel Laban, presentato all’Asian Film Festival, che gli ha permesso di vincere i premi per la Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura e il Premio Speciale della Giuria alla tredicesima edizione del Cinemalaya Film Festival (la rassegna del cinema indipendente delle Filippine).
IL RITRATTO DI UNA FAMIGLIA IN DIFFICOLTÀ E UN CATTIVO PRESAGIO
Sea Serpent è ambientato nella piccola isola filippina di Marinduque e segue le vicende di Divina (Elora Españo), Dian (Therese Malvar) e Dino (Juan Michel Salvado), tre fratelli costretti a cavarsela da soli dopo la scomparsa del padre. Divina, la più grande, si assume il ruolo di capofamiglia e cerca come può di crescere i fratelli più piccoli, fino a che una mattina il mare si tinge di rosso a causa di un enorme carico di mele dalla provenienza sconosciuta che si è riversato in mare. Gli anziani mettono in guardia la popolazione: è un cattivo presagio, probabilmente legato al serpente marino che si dice abiti il mare che circonda l’isola.
SEA SERPENT RACCONTA LA DURA REALTÀ DEL QUOTIDIANO
Laban è un regista che ha dedicato la vita a fare cinema nel suo paese natio, esplorando le zone più sconosciute e marginali per raccontarne le dinamiche, le abitudini e il folklore. Sea Serpent non fa eccezione e ci mostra la vita in un piccolo villaggio di pescatori alle prese con la vita di tutti i giorni, raccontando in particolare il rapporto dei suoi abitanti col mare che è sia fonte di vita che luogo di morte per chi ci si avventura.
Ciò che colpisce di Sea Serpent è il distacco quasi antropologico con cui il regista mostra la quotidianità dell’isola e l’oggettività con cui tratta i rapporti tra i personaggi, in particolare quelli tra Divina e i suoi fratelli. Laban non esprime giudizi né tanto meno calca la mano per evidenziare la povertà degli abitanti. Anzi, quello della povertà è un tema quasi del tutto assente nel film, in quanto nessuno se ne lamenta e non ci viene mostrato qualcuno che vive “meglio” degli altri; la percepiamo noi spettatori occidentali, che viviamo in una realtà urbanizzata. Ciò che viene approfondito maggiormente è il rapporto tra folklore e modernità: da una parte ci sono gli abitanti spaventati per il cattivo presagio rappresentato dalle mele portate sulla spiaggia dalla corrente, dall’altra c’è un narcotrafficante straniero che si nasconde nella giungla alla ricerca del carico di droga che ha perso. Egli è fonte di grande preoccupazione per gli adulti del villaggio che gli danno la caccia ma viene trattato umanamente solo da Dino, che lo trova ferito e agonizzante in una baracca (prendendosi cura di lui).
Il lungometraggio è un’opera del tutto anticommerciale, dal ritmo molto lento e dall’atmosfera tetra: merito della fotografia cupa che tende a scurire moltissimo le immagini ma che è capace di restituire degli scorci mozzafiato, soprattutto nelle scene girate all’alba o di notte in cui la luna si riflette sul mare. Questa lentezza, a volte talmente opprimente da scoraggiare una parte di pubblico poco avvezza ad un andamento così poco sostenuto, è però figlia di una precisa idea di Laban, che vuole assecondare il ritmo della vita nella comunità dei pescatori senza creare forzature di nessun tipo e senza allontanarsi dalla sua rappresentazione fedele della realtà.
Sea Serpent è una pellicola difficile, di quelle che si comprendono magari a distanza di molto tempo dalla visione ma che in un modo o nell’altro riesce a non farsi dimenticare, anche solo per la bellezza delle immagini che mostra.