Writers Guild Italia intervista in collaborazione con Anonima Cinefili Massimo Gaudioso, collaboratore storico del regista romano Matteo Garrone e co-sceneggiatore del film Dogman, premiato all’ultimo Festival di Cannes per l’interpretazione del protagonista Marcello Fonte.
Massimo, il terribile evento cui è liberamente ispirata la storia, e ancor più la ricostruzione in parte inventata che ne fece Pietro De Negri, sono conosciuti da tutti per la loro inaudita e spietata crudeltà. In un’intervista dell’epoca a Il Messaggero, Dario Argento ebbe a dire: “Questo è un mattatoio, non c’entra con i miei horror”. Inizialmente sentivate il peso della ‘responsabilità’ di un confronto con il fatto di cronaca? Come avete deciso di procedere nel passaggio dal reale alla finzione?
Il peso della responsabilità non lo abbiamo mai sentito, anche perché non era nelle nostre intenzioni fare una ricostruzione dell’evento, né qualcuno ci aveva pagato per farlo. All’inizio – parlo della prima stesura che, se mi ricordo bene, fu scritta tra Primo Amore e Gomorra – eravamo partiti dal solito lavoro di documentazione.
Avevamo letto l’ottimo racconto che aveva scritto Cerami, contenuto nel suo libro Fattacci, che già avevamo usato inizialmente come traccia per L’Imbalsamatore. Era uno dei quattro episodi di cronaca nera che Cerami aveva scelto tra quelli più rappresentativi di un’epoca e, tra l’altro, ci piacevano tutti. Cerami già dava una sua personale lettura alla vicenda, che era quello che avremmo voluto fare anche noi. Facemmo un ulteriore lavoro di documentazione, attraverso la raccolta di materiale scritto o filmato (articoli di giornale dell’epoca e approfondimenti televisivi).
Quindi cominciammo a costruire una prima scaletta dettagliata dei fatti, una mappa della storia, da tenere soltanto come base di partenza. Da lì abbiamo cominciato a immaginare la storia daccapo, seguendo le nostre suggestioni: prima il protagonista, poi l’antagonista, lo scenario e via dicendo, distaccandoci progressivamente dalla storia vera e inserendo quello che ci sembrava importante e coerente nella caratterizzazione dei personaggi che avevamo immaginato. Il soggetto non lo abbiamo mai scritto, anche perché non si trattava di un lavoro su commissione, abbiamo proceduto costruendo diverse scalette come facciamo abitualmente.
Garrone ha iniziato a lavorare alla sceneggiatura dodici anni fa. Cos’è cambiato nel corso del tempo? Inizialmente miravate a raggiungere una certa consapevolezza nel raccontare i fatti così come sono avvenuti o cercavate da subito un’ottica e una prospettiva differente?
Nel frattempo sono state fatte altre stesure, in tutto sei, in ognuna delle quali si partiva dall’insoddisfazione di Matteo per quella precedente, cercando di andare ogni volta in una nuova direzione mantenendo quello che c’era di buono, se c’era. Ogni volta si ripartiva dal personaggio e dalle sue motivazioni. E ogni volta si cambiava un po’ tutto, la sua origine, la sua estrazione sociale, il suo rapporto con l’antagonista, il punto di vista e lo scenario della storia.
Non credo che abbiamo mai raggiunto una consapevolezza della storia com’è realmente avvenuta, ma nemmeno ci interessava. Ogni volta rimescolavamo le carte per costruire una vicenda diversa, che avesse una sua verità e che fosse soddisfacente per noi per le premesse che avevamo creato. L’unica consapevolezza era quella della sua imperscrutabilità, che ci è stata subito chiara e che ci ha liberato dal peso di dover essere fedeli a un mistero.
Già il primo teaser poster della pellicola, diffuso ormai un anno fa, anticipava in maniera notevole sia lo scenario che l’epilogo della storia. Quanto erano importanti questi elementi durante la creazione del film?
L’unica nostra preoccupazione è sempre stata quella di creare uno scenario che fosse perfettamente coerente con il nostro personaggio e amplificasse visivamente la nostra narrazione. Certo, non potevamo rinunciare all’ambientazione del caso di cronaca nera che aveva colpito l’immaginazione di tutti e soprattutto quella di Matteo: la toilette per i cani. Il regno del protagonista. Un universo chiuso, a sé stante, che esclude ogni altro essere umano a parte i proprietari dei cani, gli unici abitanti di quel luogo. Un luogo che evoca in modo naturale quegli scenari da fiaba nera che tanto piacciono a Matteo.
Per il resto potevamo muoverci liberamente. Le periferie sono tutte uguali. Di luoghi come la Magliana dell’epoca – un quartiere dove, come ci hanno raccontato le persone che ci vivevano, quando pioveva le strade e i cortili si riempivano di fango e di liquami – ce ne sono tanti. E comunque, ripeto, lo scenario dipendeva dal protagonista, da quello che avevamo deciso dovesse essere il suo mondo interiore. Nell’ultima stesura è rimasta un’idea visiva che c’era sin dall’inizio, quella di un villaggio western, un microcosmo, con il corso principale attraversato dalla sabbia, il saloon, la drogheria e intorno la pianura o le colline.
Questa idea era scaturita dal conflitto finale del protagonista, un conflitto che avevamo desunto da un interrogatorio del vero Canaro e che ci sembrava centrale per la nostra storia: se nascondere o meno agli altri, alla comunità, il proprio delitto. La scelta che fa, quella che abbiamo deciso che facesse, ci ha suggerito l’inquadratura finale e ci ha definitivamente convinto che quell’idea fosse giusta. E comunque, ci tengo a precisarlo, l’epilogo della nostra storia è ben diverso da quella vera. Succede spesso che gli spettatori tendano a confondere i due piani, quello reale e quello inventato, fino a credere che il secondo sia quello vero. Con i nostri film è sempre successo così, non solo per quanto riguarda l’aspetto narrativo ma anche per quello stilistico. Per molti, Matteo fa dei film realistici, pensa un po’… Quando uscì Gomorra molti ne parlavano come se fosse un documentario, senza minimamente avere il dubbio che alle spalle ci fosse una solida drammaturgia.
Cosa avete voluto raccontare, ripescando una vicenda che sollevò tanto scalpore trent’anni fa?
Di quello che è successo 30 anni fa, dello scalpore che suscitò, dei suoi risvolti ne sono cosciente e ne ho memoria, dato che all’epoca vivevo già a Roma e non ero un bimbo. Ma il mio e il nostro interesse per il fatto in sé finisce lì. Nello scegliere questa storia non abbiamo mai avuto l’intenzione di raccontare l’Italia com’era: nessun intento storico-politico, antropologico, sociologico, psicologico. Qualcun altro lo avrebbe potuto fare, magari anche meglio di noi, ma noi abbiamo seguito un’altra strada. Non è semplice, d’altronde, cercare di spiegare cosa abbia determinato questa terribile vicenda, che cosa ci sia dietro un mistero insondabile come quello della mente umana in un caso così poco chiaro ancora oggi nella sua dinamica e nel movente.
Non era quello il nostro compito. Quindi, ogni volta che abbiamo scritto una stesura non ci siamo mai preoccupati di essere fedeli al fatto di cronaca. Sicuramente certe suggestioni, soprattutto visive, come ho detto la storia ce le ha date e sono piuttosto evidenti. Si potranno riscontrare nella trama alcuni episodi simili a quelli reali (o meglio, a quelli che ci sono stati tramandati). Ma questo non vuol dire che volessimo imitare la realtà. Tutt’altro. Ogni volta abbiamo lavorato cercando di immaginare nuovi personaggi e scenari, senza intaccare il nucleo originario. La scelta di un luogo e di un tempo diverso è la naturale conseguenza di una precisa volontà che è alla base di tutti i film che abbiamo fatto finora, quella di trasfigurare il reale, trasponendolo in una dimensione senza tempo, fiabesca, con personaggi archetipici.
In alcune pellicole questa volontà è espressa più chiaramente, in altre meno, ma è sempre stata fondamentale nel nostro approccio quando abbiamo deciso che storia raccontare. Non abbiamo mai temuto di disorientare il pubblico. Magari ci sarà qualcuno che andrà al cinema aspettandosi di vedere la fotocopia di quella spaventosa vicenda, o almeno di quella che crede essere la sua fedele riproduzione, ma spero proprio di no. Come diceva il mio amico Eugenio Cappuccio: il cinema è un’altra cosa. Un film è un film, con la realtà non c’entra niente; se uno va lì a mettere i puntini sulle i, a fare confronti, è un problema suo. Gli spettatori giovani neanche sanno di cosa si parla, per fortuna, i più vecchi sono morti e quelli come me sono già sufficientemente rincoglioniti per fare paragoni.
Il rapporto con Garrone e con l’altro suo sceneggiatore di fiducia, Ugo Chiti, in che modo ha influito sul film? Hanno predominato le convergenze o le divergenze nel processo creativo di scrittura?
Ormai sono tanti anni che con Ugo e Matteo ci si ritrova per lavorare insieme. Ci conosciamo bene, siamo una squadra collaudata se così si può dire. C’è un’ottima sintonia, mi sembra. Matteo è molto esigente quindi le divergenze ci possono stare, così come i momenti di tensione che ne scaturiscono ma poi tutto rientra, è normale, fa parte di questo mestiere e sarebbe strano il contrario. Di solito le convergenze sono proprio il risultato, la sintesi perfetta delle divergenze che sono la nostra ricchezza.
In fase di elaborazione dello script, che influenze sono emerse? È possibile che nel film ci sia qualcosa di Pasolini, magari con le ambientazioni del suo Ragazzi di Vita? Il contesto della borgata romana è o è stato importante per te?
Influenze letterarie ci sono state, ma Pasolini mai. Piuttosto Dostojevski, il suo mondo narrativo, quello senz’altro. Nelle prime due stesure, soprattutto nella costruzione del protagonista, eravamo partiti dalle Memorie dal Sottosuolo, le cui influenze secondo me continuano a risuonare nell’ultima versione, quella che è stata girata, e da un bellissimo saggio di René Girard Il Capro Espiatorio. Ragazzi di Vita non è mai stato nominato, se ben ricordo.
Io non sono di Roma, ci sono venuto soltanto per lavorare, non vivo nelle borgate e nelle periferie, non ho un legame affettivo né sono interessato particolarmente a quello che vi accade. Quindi non sarei in grado di raccontarle. Se un giorno mi dovesse capitare di conoscere una storia di borgata che m’interessa o di incontrare una persona che viene dalla borgata con una storia interessante cercherei di saperne di più, frequenterei quel posto, quella persona ma questo potrebbe accadere ovunque e in qualsiasi momento.
Com’è stato il processo di scrittura? C’è qualche scena che ha avuto un’importanza particolare nella collaborazione con Chiti e Garrone?
Veramente non ricordo scene particolari. In generale mi è piaciuto molto scrivere il film, in alcune stesure precedenti ci siamo anche molto divertiti nel costruire delle situazioni che esprimessero il mondo interiore del protagonista così come lo stavamo immaginando. A volte Matteo s’intestardisce su alcune scene che ritiene indispensabili oppure insiste a farci scrivere in modo molto minuzioso alcune scene che poi magari neanche gira.
Faccio un esempio: la scena della tortura, che era un retaggio della vicenda reale. L’abbiamo scritta più volte e non era mai abbastanza, sembrava sempre che ci fosse qualcosa di troppo o di troppo poco. Alla fine abbiamo compreso che l’insoddisfazione nasceva dal fatto di averla voluta lasciare a tutti i costi, mentre non era più un elemento così essenziale nella nostra narrazione, nel percorso che avevamo intrapreso. E la scelta dell’attore protagonista prima e del lavoro di costruzione del personaggio fatto insieme a lui da Matteo, soprattutto sul set, ce lo ha definitivamente confermato.
Alla fine credo che quello c’era nelle nostre menti e sul copione corrisponda a ciò che si vede nel film, anzi ha trovato una sua giusta definizione. È vero che Matteo ha la capacità di sorprenderci sempre, perché non si accontenta mai della pagina scritta, la rielabora continuamente sul set e, dopo, in fase di montaggio. Ma, essendo coinvolto in tutte queste fasi, condivido con lui anche gli eventuali cambiamenti e me ne sento co-autore e co-responsabile.
(intervista a cura di Francesco Maggiore)