“È una stronza, ed è stronza fino alla fine”. Con queste parole il regista Stefano Amatucci tratteggia la protagonista della sua opera prima di lungometraggio, Caina prodotta da Movieland e distribuita da M00vi00le (il 28 maggio a Roma, il 29 maggio a Vicenza, il 30 maggio a Padova, il 31 maggio a Bologna, il 1 giugno a Venezia, il 5 giugno a Napoli, il 6 giugno a Castellammare, il 7 giugno a Salerno, l’11 giugno a Empoli).
Caina (Luisa Amatucci) è una donna che costruisce la sua identità sulla violenza, la xenofobia, il cinismo e il razzismo, con una notevole dose di fondamentalismo religioso. Sullo sfondo di un mondo minuscolo, tra una spiaggia e una fabbrica, coperte perennemente da un cielo plumbeo, si consuma la durissima vita quotidiana di Caina, trovacadaveri di professione.
Lo spettatore non è accompagnato sulle soglie di questo mondo, ma vi è brutalmente introdotto: può semplicemente affacciarsi in questa squallida realtà, talmente piccola da essere asfissiante. In un futuro indefinito, vicinissimo al nostro presente, le spiagge sono inondate dai cadaveri dei migranti, che annegano in mare, e che la corrente trascina sulle rive. Caina riceve un compenso per ciascun corpo che trova: lo vende a un centro di smaltimento statale, gestito dalla Signora Ziviello (Isa Danieli), dove i morti vengono sciolti nel cemento: simbolo di una modernità che si costruisce letteralmente sulle vite degli abitanti del terzo mondo.
Caina ha bisogno della morte per lavorare, e del ribrezzo della morte. “Se la gente si abitua ai morti, per me è la fine” sussurrerà a un certo punto: emblematico riassunto del cinismo crudele, privo di pietà e compassione con cui si approccia ai cadaveri, non corpi né anime, ma solo fonte di guadagno. Questa pur macabra professione è costantemente minacciata dagli abusivi, immigrati irregolari arrivati vivi che per sopravvivere rubano le spoglie portate dal mare. Uno di loro, Nahiri (Helmi Dridi), decide però di abbandonare il gruppo, ridotto a dover uccidere coloro che arrivano vivi per guadagnare, e si rivolge a Caina, chiedendole di lavorare per lei. Lei accetta, ma lo tratta con minore umanità di quella riservata a un cane. Tra i due si innesca un irriducibile scontro di civiltà, dominato dall’ignoranza culturale, e da una lettura della realtà che non riesce a svincolarsi dallo stereotipo.
Caina e Nahiri diventano personificazione di simboli radicalmente opposti: cemento e natura, monologo e dialogo, grigiore e colore. E se lo spettatore attende la trasformazione, la catarsi del personaggio di Caina, il lieto fine che pare quasi intravedersi negli sguardi dei protagonisti, la brutalità della sceneggiatura spezza questa speranza, consegnando l’una a una statica immobilità e donando all’altro quella spinta necessaria per scalare la società.
La storia dietro la pellicola è lunga: l’idea nasce nel 2009, ispirata da un testo di Davide Morganti. “Con Morganti abbiamo scritto uno spin-off ispirandoci alla sua protagonista: facendole vivere una storia, sì tragica, ma calata in una realtà distopica, visionaria, allucinata”, racconta il regista. Caina, però, è fin troppo vicina al nostro presente per essere definita pienamente distopica. La protagonista, infatti, non incarna un ruolo estremo, una posizione polarizzata: le sue frasi, la sua rabbia, sono ormai quotidiane, e la tragedia del Mediterraneo si concretizza in immagini che scorrono abitualmente sugli schermi dei nostri telegiornali.
Forse poteva essere distopia nel 2009, ma nel 2018 è realtà tradotta in formato cinematografico. Anche il regista ne è cosciente: “All’epoca, l’immigrazione non era un argomento che interessava particolarmente l’opinione pubblica e i media. Io cominciai ad approfondirlo e in breve tempo mi si è aperto un mondo: l’Italia e l’Europa erano sedute su un serbatoio esplosivo, e non bisognava essere particolarmente geniali per intuirlo.”
Con un budget bassissimo, e in sole tre settimane di riprese, Amatucci firma un’opera di grande impatto e addirittura visionaria (cosa rara per il cinema italiano) e si dimostra capace di prevedere la degenerazione della xenofobia, la raggelante spersonalizzazione e addirittura il business che si regge su di essa. Un titolo che viene da lontano e che, in una prospettiva distopica ci fa guardare al presente e al futuro, affidando a Nahiri un messaggio: “Fino ad ora, mi pare che quelli che muoiono siamo noi”.