La coda lunga della crisi iniziata con i subprime nel 2006, le conseguenze di un’amministrazione nazionale e locale spesso incapace di esser percepita come virtuosa, il disincanto dopo il risveglio dal sogno di un’Europa dei popoli, un sistema sovranazionale che impone la controversa ricetta del rigore, la questione sempre più centrale dei flussi migratori e la sua pessima gestione a livello comunitario.
Sono molti i fattori che hanno risvegliato i nazionalismi del nostro continente (e non solo), e sembra che le opinioni pubbliche occidentali siano sempre più sedotte da soluzioni conservatrici e sovraniste. Cosa distingue però una politica di destra più o meno supportata da un consenso elettorale con una vera e propria deriva fascista? Quando il semplice disaccordo (anche militante) verso ricette di chiusura, autonomia e populismo deve trasformarsi in vera e propria preoccupazione e resistenza?
La risposta sembra darcela il documentarista Håvard Bustnes nel suo Golden Dawn Girls (Hatets Vugge), presentato in questi giorni al Biografilm Festival 2018 – International Celebration of Lives. Il lungometraggio del norvegese racconta l’ascesa del partito neonazista greco Alba Dorata, scegliendo un punto di vista particolare: quello delle donne di partito.
A dire la verità sembra che Bustnes si rivolga inizialmente alle mogli e figlie dei membri della formazione politica ellenica solo per aggirare l’ovvia ostilità dei violenti militanti uomini, con la scusa di raccontare la quotidianità delle vite dietro la facciata mediatica, di “far capire che sono persone normalissime e non dei mostri”. Ovviamente si tratta solo di un pretesto e il cineasta, umanista convinto, non ha alcuna intenzione di giustificare il ricorso alla violenza che caratterizza il movimento di Nikólaos Michaloliákos. Anzi, ricorrendo proprio alla disinvoltura con cui madri, mogli e figlie giustificano orgogliosamente le simpatie naziste (o sarebbe meglio definirlo un vero e proprio culto della svastica) dei propri cari, o all’ostinazione con cui si rifiutano di criticare il loro continuo ricorso alle mani e alle spranghe, confeziona un ritratto drammatico e preoccupante di una delle pagine più oscure dell’Europa contemporanea.
Quel che più turba lo spettatore, infatti, è quanto i deliranti proclami di Alba Dorata sembrino solo una versione più estrema delle ideologie conservatrici già presenti (e fiorenti) nella maggior parte dei paesi occidentali. E soprattutto, a turbare è la risposta alla domanda di cui sopra – quale sia la soglia oltre la quale la riprovazione deve trasformarsi in allarme e resistenza. È infatti proprio il superamento del tabù dell’azione violenta a trasformare idee antidemocratiche in una minaccia immediata e concreta, e nel film vediamo come nel cuore dell’Europa moderna possa esistere una forza politica (la terza del suo paese) che da un giorno all’altro inizia a organizzare una propria milizia e a praticare intimidazione, squadrismo e addirittura omicidio come parte di un programma ‘politico’ (sarebbe più esatto definirlo criminale).
Il materiale raccolto da Bustnes è decisamente forte e non può non tenere desta l’attenzione dello spettatore, ma la sua intenzione iniziale di ritrarre Alba Dorata dalla prospettiva familiare delle donne (idea già schiava di troppi preconcetti in partenza) si scontra con un cambiamento imprevisto: negli anni in cui la maggior parte dei leader del partito finiscono in carcere, sono le donne a dover prendere il controllo della baracca, e vi riescono con assoluta abilità e fermezza. È qui che la narrazione impostata inizialmente dal regista, che cercava di ritrarre un fenomeno di rara durezza approcciando da quello che supponeva essere il lato ‘debole’, si rivela in tutta la sua fallacia. È anche a causa di tali sviluppi che una certa incapacità avvertibile sin dall’inizio di creare un legame empatico con le intervistate porta a una freddezza delle interazioni che inevitabilmente si riverbera sul risultato finale. Il norvegese non risulta infatti mai capace di far leva sulle giuste corde per fare aprire le proprie interlocutrici, e quando queste iniziano anche ad avvertire la responsabilità di rappresentare una forza politica, quelli che dovrebbero essere degli incontri informali e intimi si trasformano in sterili comizi politici da salotto.
In conclusione Golden Dawn Girls rimane un documento (più che un documentario) estremamente interessante ed emozionante su come la peggiore delle svolte possa sempre essere dietro l’angolo, ma non riesce mai a riuscire veramente nell’intento di superare la cortina dell’autorappresentazione e manca della necessaria contestualizzazione del fenomeno raccontato. Non sarà utile a comprendere meglio perché è nata ed ha prosperato Alba Dorata, ma rimane una finestra su un mondo agghiacciante, con una lettura originale e a tratti finanche surreale.