Quello iniziato nel 1950 non fu un decennio particolarmente gentile per il cinema autoriale italiano: la crisi del Neorealismo era stata già ufficializzata dai critici; quelle produzioni americane che non avevano potuto raggiungere l’Italia nel periodo bellico, ora inondavano le nostre sale, e nel mentre la politica cercava in tutti i modi di boicottare quei registi (Visconti, De Sica, Rossellini) che volevano raccontare le drammatiche condizioni dell’Italia del dopoguerra, indirizzando i fondi pubblici verso film d’intrattenimento con i nuovi grandi divi del cinema.
UNA STORIA DRAMMATICA DI POVERTÀ E SOLITUDINE
Eppure, all’inizio di quel decennio che ci regalò il colpo di coda del Neorealismo, Vittorio De Sica e Cesare Zavattini vollero con forza e determinazione tornare nelle sale con un film che, nonostante abbia incassato circa la metà del suo costo (diventando di fatto uno dei grandi flop della cinematografia italiana), può dirsi uno dei più importanti nonché il più estremo della loro filmografia. Umberto D. (che ora arriva in versione restaurata su DVD grazie a Mustang e CG Entertainment) è la storia di Umberto Domenico Ferrari (Carlo Battisti, attore non professionista al tempo professore di linguistica e glottologia), anziano pensionato che tira avanti con un salario talmente ridotto da non riuscire a pagare l’affitto, rischiando di essere sfrattato. Per questo trascorre le sue giornate a svendere i suoi averi per guadagnare qualche Lira, senza però mai riuscire a estinguere quei debiti senza i quali potrebbe vivere in tranquillità la sua vecchiaia. Senza famiglia e senza compagnia, gli unici rapporti veri che riesce a coltivare sono quelli con la ‘servetta’ Maria (Maria Pia Casilio), gentile, ingenua e ‘innamorata’ dei soldati in licenza a Roma, e soprattutto con l’amato cane Flaik, che avrà un ruolo dirimente nell’evoluzione della storia.
UNA COSTRUZIONE PER SOTTRAZIONE
In un continuo alternarsi tra l’isolamento – fisico ed emotivo – del protagonista e il fermento di una città, Roma, che pullula di giovani, soldati, corriere che partono e bambini che giocano nei parchi, il racconto non procede in maniera classica, ma quasi per sottrazione si sofferma con insistenza sui particolari della vita di Umberto, tanto che ogni singola scena potrebbe rappresentare una storia a sé, perfettamente conclusa e con una messa in scena fedele sia alla poetica dell’inseguimento – tipicamente zavattiniana – sia all’eleganza formale della regia di De Sica. Su questo dilatamento del racconto si basa infatti l’emozione dello spettatore che si costruisce lentamente lungo tutto il film, scena dopo scena, per poi esplodere nel finale in un legame empatico raramente così commovente.
LA CENSURA CONTRO L’IMPIETOSO RITRATTO DI UN’ITALIA CHE ARRANCA
Nonostante i bassi incassi al botteghino e il rifiuto del pubblico stesso a trovare nuovamente la triste realtà di ogni giorno sullo schermo cinematografico, molti intellettuali, di cui Cesare Pavese e André Bazin sono illustri esempi, capirono già al tempo quanto Umberto D. fosse necessario, mentre l’allora sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti si pronunciava contro quello che giudicava come un lavoro incapace di ritrarre le riforme sociali postbelliche (si arrivò addirittura a una censura i cui strascichi si protrassero fino ai primi anni ’90).
De Sica non solo crea un affresco universale e di rara potenza del tramonto della vita, raccontando la solitudine e il senso di impotenza che spesso porta con sé la terza età, ma testimonia l’assenza dello stato, in una società in cui dopo anni di inflazione e all’alba della Guerra Fredda – quando una nuova paura, quella del nucleare, si faceva già spazio tra la popolazione mondiale – alla volontà di rinascita si accompagnava il dramma di quelli cui ormai non rimaneva il tempo e la voglia per sperare in un domani migliore.
CRISI E SUICIDIO PER UN FILM DI INCREDIBILE ATTUALITÀ
Nel ritrarre la povertà più nera vissuta con grandissima dignità, una trama sociale incapace di includere chi è rimasto indietro, e il drammatico decisionismo di chi arriva a progettare la fine della propria vita pur di non finire su una strada a chiedere l’elemosina, Umberto D. si rivela un’opera di sorprendente attualità, che, pur descrivendo un’Italia di quasi settant’anni fa, non può non portare alla mente tutti quei casi di suicidi legati alla crisi economica di cui abbiamo letto sui giornali negli ultimi anni.
Se i bambini di Sciuscià e i padri disoccupati di Ladri di Biciclette sono i primi ‘eroi’ del cinema di De Sica e Zavattini, è con il protagonista di Umberto D. che il ritratto di un’esistenza arriva a un tale livello di asciutta intensità da portare anche lo spettatore più giovane e spensierato a provare la più completa immedesimazione con un uomo anziano e perbene cui la vita ormai riserva solo i colpi più duri. Per quanto il pubblico voglia difendersi da certe emozioni, si trova completamente atterrito dalla forza con cui la semplicità del quotidiano si trasforma in una straordinaria odissea di impotenza, vedendosi però negata ogni rassicurazione nel memorabile finale aperto, in cui nessun uomo può garantire nulla ed è il pur ‘tradito’ jack russell Flaik l’unica ragione per non arrendersi.