Attenzione: la seguente recensione potrebbe contenere spoiler
In una delle scene finali dell’ultimo episodio della seconda stagione di Westworld, il personaggio di Maeve (Thandie Newton) riesce a fermare un’intera orda di “ospiti” con il solo gesto di una mano: chi ha visto la sequenza avrà pensato immediatamente ad una citazione fin troppo esplicita del Neo di Matrix. Potremmo riprendere la trilogia delle Wachowski per raccontare la parabola discendente di Westworld – The Door: il primo Matrix ha generato un immaginario di grande suggestione, aprendo uno squarcio filosofico dalle grandi potenzialità sul rapporto fra informatica e umanesimo. I sequel hanno invece alterato l’impostazione originaria, disarticolando la semplicità narrativa e giocando con l’accumulo di immaginari, mondi e personaggi. Ecco, la seconda annata di Westworld si è mossa sulla stessa falsariga, con tutte le debolezze del caso: ha mantenuto un ottimo impianto originario fino a metà stagione, poi lentamente è precipitata in un limbo che potrebbe penalizzare pesantemente lo show HBO in futuro.
GRANDE È LA CONFUSIONE SOTTO IL CIELO DI WESTWORLD
La criticità che emerge più di altre nella seconda stagione di Westworld è legata alla scrittura. Mentre nella prima stagione gli autori erano riusciti a trattare molti argomenti filosofici, politici ed esistenziali utilizzando un’unica architrave metaforica (quella degli “ospiti” inconsapevoli della loro vita artificiale), quest’anno sembrano aver perso per strada quella miracolosa semplicità di concentrazione narrativa che rendeva lo stile di Westworld unico nel suo genere. La creatura di Jonathan Nolan e Lisa Joy rimane in ostaggio di divagazioni tematiche, di continue frammentazioni della storyline principale in sottotrame secondarie, di carrellate ingombranti su nuove ambientazioni e character che hanno finito per confondere lo spettatore senza riuscire a raggiungere un unico concept, lo stesso che invece aveva reso la prima annata estremamente interessante. Il trucco delle sovrapposizioni di linee temporali, che ci aveva piacevolmente sorpreso nel 2016, qui appare coercitivamente pianificato a tavolino, poco tempestivo e mai convincente, tanto da essere difficilmente districabile anche dopo aver visto il season finale. Non è un caso che quest’anno fosse complicato comprendere la successione degli eventi (nel passato, nel presente o nel futuro): gli autori hanno complicato l’incoerenza cronologica delle timeline senza rendersi conto che quel meccanismo funzionava nella scorsa stagione perché era semplice e spontaneo, capace di svoltare il plot e di stupire. Stavolta invece ci siamo resi conto fin troppo presto che qualcosa stava accadendo al di fuori della continuità temporale, e per questo motivo siamo rimasti prigionieri di questo espediente narrativo che non ha permesso al pubblico di seguire in maniera ottimale lo svolgimento della storia.
DAL POLITICO AL MISTICO
Un altro aspetto che ha funzionato poco è stato anche il tentativo di dare un seguito convincente a ciò che aveva lasciato in eredità la prima stagione: finalmente coscienti della loro natura artificiale, gli ospiti si erano ribellati ai visitatori uccidendo il padre-creatore Ford e liberando la loro rabbia contro gli esseri umani. Da qui era difficile ripartire, proprio per la mancanza di quel conflitto quasi politico che stava alla base del mondo di Westworld; eppure gli autori, consapevoli di una fanbase sempre più esigente, ci hanno provato. Ci sono riusciti bene laddove hanno approfondito gli stessi immaginari della precedente annata, focalizzandosi sui singoli personaggi (come ad esempio l’episodio su Akecheta, il capo tribù della Ghost Nation) o richiamando le basi originarie dell’universo di Westworld nella puntata sul parco giapponese Shogun World. Tuttavia il nuovo snodo principale – quello della cospirazione della Delos – è un fallimento perché ha preso il sopravvento su tutto il resto, costringendo i protagonisti a vagare per i sotterranei e i laboratori senza una meta precisa. Probabilmente, per Nolan e Joy, l’obiettivo era di ricreare agli occhi dello spettatore lo stesso smarrimento che prova sulla sua pelle uno dei protagonisti della serie, Bernard, i cui ricordi sono stati appositamente manomessi per renderli indecifrabili: alla lunga però immedesimarsi nei panni di un personaggio alla deriva è molto stancante e poco avvincente. Non ha convinto nemmeno l’aura quasi mistica che gli autori hanno deciso di dare allo show svoltando nel trascendentale, rimarcando questa scelta anche nell’episodio finale che può essere riletto come un’allegoria della nascita della fede con tanto di riferimenti biblici alla traversata nel deserto di Mosé. “Quello che facciamo ha qualcosa di magico” dice Ford in una scena: tutto sembra far pensare che la seconda stagione abbia voluto rappresentare un percorso in cui gli ospiti, dopo aver scoperto di possedere un’anima, facciano il passo successivo verso la coscienza religiosa e l’esistenza di un paradiso. Eppure i migliori momenti della stagione rimangono i mini-plot che ci riportano al passato, recuperando l’impianto originario più politico e sociologico: è il caso di The Riddle of the Sphinx, in cui si racconta la minuziosa genesi di un clone di James Delos (Peter Mullan) in una puntata che potrebbe tranquillamente ben figurare in Black Mirror.
POCHI DIALOGHI, MOLTA AZIONE
Westworld – The Door regala comunque sequenze da incorniciare, grazie alla solita cura nella messa in scena (anche se Jonathan Nolan in questa stagione non ha firmato la regia di nessun episodio) e alla consueta bravura dei protagonisti: mentre Anthony Hopkins ritorna nei panni dello straordinario personaggio del Dr. Ford, Ed Harris merita un particolare elogio perché raramente lo abbiamo visto così in forma. Ma in realtà bisognerebbe fare un plauso a tutti gli interpreti principali, da Jeffrey Wright a Evan Rachel Wood, da Thandie Newton a James Marsden. Nonostante il loro talento, la caratterizzazione dei protagonisti non è stata però ben sviluppata come nella prima stagione. La stessa difficoltà strutturale di cui abbiamo parlato in precedenza si riflette infatti anche sulle prove attoriali: i dialoghi, ad esempio, sono più opachi e meno incisivi mentre abbondano le scene di azione, a scapito dei momenti di speculazione filosofica ed ideologica che invece rappresentavano i motori narrativi di Westworld.
Eccellenze a parte, il problema dello show HBO è sistemico perché Westworld 2 sembra soffrire la ‘sindrome di Lost’: come la serie-capolavoro di Abrams e Lindelof, rischia di rimanere invischiata nei suoi stessi enigmi, arrivando ad un season finale che, pur nella sua coralità, risolve solo alcuni misteri per aggiungerne altri in vista della terza stagione (già annunciata dal network americano). Da questo punto di partenza può comunque ripartire il progetto di Jonathan Nolan, lasciandosi alle spalle un’annata di transizione che non ha funzionato come avrebbe dovuto per guardare al futuro con maggior consapevolezza nelle proprie potenzialità. In fondo nulla è andato perduto, come un po’ ci racconta la stessa Codex dei Radiohead che chiude il season finale: “No one gets hurt / You’ve done nothing wrong – Nessuno si fa male / Non hai fatto niente di male”.