Dopo essere stato gloriosamente presentato in anteprima mondiale al Biografilm Festival – International Celebration of Lives, Iuventa sta girando per l’Italia e per la Germania, attraverso festival e proiezioni sold-out. Nel film il regista Michele Cinque affronta il tema dell’immigrazione, da molti mesi ormai al centro dell’opinione pubblica, raccontando le vicende di una delle imbarcazioni preposte al salvataggio dei naufraghi che tentano l’attraversamento del tratto di mare che ci separa dall’Africa. Per realizzare il documentario Cinque si è imbarcato nel 2016 sulla Iuventa, un vecchio peschereccio che la ONG tedesca Jugend Rettet (la gioventù che salva, in italiano) è riuscita a rimettere in sesto grazie a 400 mila euro ottenuti con una campagna di crowdfunding, raccontandone la storia e l’attività.
Dopo molti mesi di riprese e di lavoro è nato così Iuventa, un bellissimo documentario che illustra come funziona una ONG a ‘360 gradi: dalle missioni in mare alla parte burocratica, dalle riunioni nella sede berlinese fino alla ricerca e la gestione di fondi. Tutte operazioni che sono a carico di un’associazione di ragazzi giovanissimi – nemmeno ventenni – che hanno deciso di dedicare l’estate dopo l’ultimo anno di liceo al salvataggio dei migranti in mare. Oggi la Iuventa si trova ancorata al porto di Trapani, poiché la procura ha deciso per il sequestro preventivo della nave nell’agosto del 2017.
Anonima Cinefili ha incontrato Michele Cinque per parlare di un film destinato a essere visto e dibattuto nella prossima stagione cinematografica italiana.
Dato che Iuventa è, come lo definisci tu, un “documentario di osservazione”, non ha una vera e propria sceneggiatura. Come è stato il processo di lavorazione?
“Ho appreso dell’esistenza della ONG leggendo una notizia su Facebook e ho immediatamente pensato che quello sarebbe stato il mio prossimo film. Pur dovendo rinunciare ad alcuni progetti, sono volato a Malta dove la crew di Jugend Rettet stava per imbarcarsi per una missione. Fino a quindici minuti prima di salpare non ero nemmeno sicuro che mi avrebbero fatto salire. I ragazzi hanno messo la questione ai voti e alla fine hanno deciso positivamente.
Ho trascorso sulla barca una decina di giorni, durante i quali la Iuventa, alla sua prima missione, era riuscita a portare in salvo circa duemila persone. Successivamente ho continuato a seguire i volontari e la ONG, mettendo così insieme ben 500 ore di materiale filmato, fra cui 120 in mare. Insieme al montatore abbiamo deciso di dedicare metà del documentario a quella missione. Ci sono tante scene extra che nei prossimi mesi caricheremo sul sito del film.”
Quando sei stato sulla nave avevi degli altri compiti oltre a quelli di riprendere ciò che succedeva?
“No, mi sono “limitato” a svolgere il mio lavoro di regista e di narratore. I ragazzi avevano capito che il lavoro di ripresa che facevo era importante tanto quanto quello che facevano loro. Sono salito sulla Iuventa con l’intenzione di fare un film per raccontare una realtà sulla quale all’estero si sapeva davvero poco. In Italia non si sapeva quasi nulla, c’era soltanto qualche sparuto articolo sui giornali. In Germania, invece, la Jugend Rettet era diventato un caso mediatico e questi giovani erano visti come degli eroi.”
Come sono stati i rapporti con la guardia costiera e le istituzioni italiani?
“Essendo l’unico italiano a bordo della nave, spesso facevo da “mediatore” fra la guarda costiera e i volontari tedeschi. I rapporti sono stati sempre corretti, la Jugend Rettet e le istituzioni italiane hanno collaborato con grande successo fino alle dichiarazioni di Zuccaro della primavera del 2017. Da quel momento è cominciato a cambiare il modo in cui venivano viste le ONG e i rapporti si sono inaspriti. Basta pensare che nel 2016 c’erano dieci navi a operare sul Mediterraneo mente oggi sono solo 2-3. I rapporti si sono deteriorati ovviamente lo scorso Agosto, quando la procura di Trapani ha sequestrato la Iuventa con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.”
Come si sta muovendo la Jugend Rettet a proposito del sequestro?
“Come si vede nel finale del film, i ragazzi sono rimasti estremamente delusi dal sequestro della nave. La Iuventa è ancora ferma al porto di Trapani, dal momento che pare la Cassazione abbia ritenuto la richiesta di dissequestro non valida. Nonostante una ricerca di una importante agenzia londinese (Forensic Architecture), secondo la quale l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina è infondata, un importantissimo mezzo di soccorso come la Iuventa è ferma e inutilizzata da quasi un anno.
In questo momento la Jugend Rettet si sta impegnando legalmente per far tornare in attività la Iuventa e contemporaneamente sta pensando di acquisire un’altra nave per far ricominciare il lavoro di salvataggio. Alcuni volontari non si sono fermati e hanno poi fondato una seconda ONG, Mare Liberum, che opera fra Lesbo e le coste turche.
Tuttavia, come si vede nel film, ad un certo punto il fondatore di Jugend Rettet è uscito dall’associazione perché si era accorto di quanto il loro volontariato stesse diventando un lavoro vero e proprio. Il loro obbiettivo era dare un segnale forte all’Europa e mostrare quanto fosse importante il lavoro delle organizzazioni non governative. Non volevano assolutamente sostituirsi al lavoro dell’Unione Europea. Il fatto che questo processo di “professionalizzazione” fosse andato così avanti ha significato per loro un’enorme sconfitta a livello politico. “
Per quanto riguarda le sequenze di salvataggio sui gommoni: come le hai girate? Salendo a bordo?
“Salire a bordo dei gommoni di salvataggio non mi era consentito, dal momento che avrei potuto ostacolare o rallentare le operazioni. Dopo aver a lungo studiato le inquadrature, ho posto quattro telecamere go-pro sui gommoni a riprendere l’azione. In sede di montaggio abbiamo poi deciso di mostrare le sequenze di salvataggio con dei semplici piani sequenza, senza montarle o alterarle in alcun modo. Volevo che il mio fosse un lavoro di pura osservazione e che a trarre tutte le conclusioni fosse lo spettatore. Sono stato fortunato a poter lavorare con degli attivisti che, nonostante fossero impauriti dalla prima missione di soccorso, hanno collaborato il più possibile con me per far sì che riuscissi a filmare tutto.”
Cosa ne pensi di un film come Fuocoammare?
“Trovo che sia un grandissimo film, con cui non a caso l’Italia ha conquistato l’Orso d’Oro ed era presente agli Oscar 2017 (nella sezione miglior documentario). Certamente è molto diverso dal mio: formale, forte di una sceneggiatura precisa e di un montaggio molto più articolato di quello di Iuventa. Io ho avuto poche possibilità in termini di stile; dovevo mettere la telecamera in modo da non intralciare i volontari.
Ammiro il coraggio di Gianfranco di mostrare certe immagini di persone morte, sulle quali lui stesso era titubante. Anche durante la lavorazione di Iuventa, mentre ero a bordo per la missione di salvataggio, mi successe di riprendere la morte con la telecamera. Mi ricordo che spensi immediatamente e scappai dal capitano della barca; sono esperienze drammatiche, che hanno lasciato il segno su di me e su tutti i giovani volontari. Credo che però diano l’idea dell’importanza del lavoro delle ONG e delle grandi responsabilità umanitarie che hanno.”
Cosa ne pensi invece delle politiche del governo Conte sull’immigrazione?
“Ciò che mi fa arrabbiare è la strumentalizzazione degli eventi. Le narrazioni legate al complesso mondo del mediterraneo vengono semplificate e strumentalizzate, per evitare che nasca un dibattito o si parli di ciò che effettivamente succede sulle ONG. Sopratutto per questo ho girato Iuventa: volevo che tutti vedessero cosa succede sulle navi, che aria si respira e soprattutto ciò a cui vanno incontro migranti e volontari. Semplificare la questione è molto pericoloso.
Queste persone attraversano una nazione, spendono tutto ciò che hanno e durante il tragitto vedono amici o parenti morire nei peggiori modi immaginabili. Nel documentario si sente un dialogo fra due migranti, nel quale uno dice che se fosse rimasto a casa sua sarebbe stato ridotto in schiavitù e sarebbe probabilmente morto per quello. Loro preferiscono rischiare la vita nel tragitto verso l’Italia, piuttosto che arrendersi. Prendete il caso della Sea Watch: quaranta sopravvissuti, dodici morti e tantissimi dispersi. Queste persone vanno incontro a questo, pur di scappare dal loro paese.
Il nostro governo vuole fare pressione sull’Europa per rivalutare gli accordi legati al trattato di Dublino, ma nel fare ciò non possiamo lasciare la gente morire. Spero che vedendo Iuventa ci si possa rendere conto di quanto sia difficile e necessario il lavoro delle ONG. Tenere delle navi da salvataggio ancorate nei porti non serve a nulla. È importante che mezzi di soccorso come la Sea Watch o la Iuventa restino all’opera in mare.”