A poco meno di un anno dalla prima stagione, è tornata su Netflix Glow, la serie ispirata al sindacato delle wrestler professioniste fondato negli anni ’80 da David McLane. Lo show, ideato dalle sceneggiatrici e produttrici Liz Flahive e Carly Mensch (che presto ritroveremo nell’affollatissima writer’s room di Captain Marvel) con questo secondo ciclo non solo conferma quanto di positivo avevamo visto nella stagione di debutto, ma fa un deciso salto di qualità in termini di scrittura – che va a tutto vantaggio dell’esperienza di visione.
Le protagoniste sono le lottatrici che abbiamo imparato ad amare nelle puntate precedenti, ancora una volta ‘capitanate’ dalla patriottica Liberty Bell (Betty Gilpin, American Gods) e dalla sua nemesi Zoya la Destroya (Alison Brie, già vista in Mad Men e sentita come voice actress in Bojack Horseman). Al loro fianco ancora una volta il regista Sam Sylvia (il cabarettista Marc Maron) e il produttore Sebastian “Bash” Howard (Chris Lowell), mentre come new entry troviamo la nuova Junkchain ispanica interpretata da Shakira Barrera e Victor Quinaz, nei panni del fugace interesse amoroso di Ruth. Un cast sempre più affiatato e, ora più di prima, aiutato da una scrittura che comincia ad avere il tempo per lavorare di chiaroscuro e che trae vantaggio da un metraggio di puntata che varia con una certa flessibilità a seconda delle esigenze.
La leggerezza insita nell’identità stessa dello show rimane una costante, ma ora Glow inizia anche a trattare temi tutt’altro che superficiali, che – pur rimanendo necessariamente poco più che spunti – trasformano una serie di puro intrattenimento in qualcosa di più ambizioso e stratificato.
La questione femminile rimane il punto focale della serie, non potrebbe essere altrimenti, ma la ricchezza di declinazioni nella quale viene proposta denota un eccezionale lavoro in fase di scrittura. Che si tratti della difficoltà di una produttrice donna di esser presa sul serio dai colleghi maschi, dei ricatti sessuali di un direttore di rete, delle difficoltà di una mamma lavoratrice, della pressione conseguente alle aspettative sociali o delle difficoltà del rapporto madre-figli, il mondo delle donne diventa un caleidoscopio da cui Glow attinge avidamente.
In tutto ciò non mancano anche aspetti meno rassicuranti, come quello della spietata competizione che può instaurarsi tra donne, che passando per un rapido climax arriverà a un momento di grande drammaticità (quello in cui Debbie si vendicherà vigliaccamente di Ruth) per poi trovare un processo di sintesi in una rinnovata e più matura sintonia nel gruppo di lottatrici. A contribuire ulteriormente alla ricchezza d’insieme, troveremo poi tematiche come l’uso delle droghe, l’omosessualità, l’AIDS e il successo.
Glow stupisce per la sua capacità di mettere così tanta carne al fuoco e riuscire a risultare completo e significativo nonostante un arco narrativo di appena dieci episodi da circa mezz’ora; un format che sembra nato per il binge-watching e che coniuga perfettamente l’evasione con la qualità, concedendosi stavolta anche il tropo del “something completely different” con l’episodio metatelevisivo La Gemella Buona.
Se l’acme della rivalità tra Debbie e Ruth rappresenta certamente la scena più forte del ciclo, sono molte le puntate particolarmente riuscite, e tra queste colpisce l’episodio dedicato al personaggio fino ad ora poco esplorato di Tammé “Welfare Queen”, in cui una straordinaria Kia Stevens regala alcuni dei momenti più emozionanti della serie.
Glow corre veloce, non fa in tempo ad accennare qualcosa che l’ha già superato (e per questo probabilmente godrebbe di un metraggio meno fulmineo e di un numero di episodi più generoso), ma rimane un prodotto dal grande carattere e le cui potenzialità iniziano finalmente ad essere sfruttate. Tra gli originali Netflix recenti, senza dubbio uno dei meglio riusciti.