Guardando Cold War torna alla mente il dibattito mai sopito sul ricorso al bianco e nero nella realizzazione di un film, e su quando questo possa dirsi intrinsecamente legato a esigenze artistiche o quando al desiderio del regista di apparire il più possibile sofisticato, autoriale. Nel caso di Cold War (Zimna wojna), nuovo film del premio Oscar Paweł Pawlikowski grazie al quale si è portato a casa il premio per la miglior regia all’ultimo Festival di Cannes nonché numerosi altri riconoscimenti e una nuova candidatura alle nomination degli Academy Awards, si può dire che la scala di grigi venga asservita con maestria ad entrambi gli intenti.
UN QUARTO DI SECOLO DIVISO TRA AMORE, MUSICA E POLITICA
Chiusi in un formato 4:3 e impreziositi da un luminosissimo bianco e nero, quelli che vediamo scorrerci di fronte agli occhi sono gli anni che vanno dal 1949 alla metà dei Sessanta. Siamo in Polonia e durante le audizioni per un’accademia di musica popolare, Wiktor (Tomasz Kot), conduttore d’orchestra dal fascino maturo e austero, rimane incantato da Zula (Joanna Kulig), una giovanissima contadina con buone doti canore ma dotata di un carisma sfrontato e seducente. Quasi neanche il tempo di finire l’audizione e la scena successiva vede i due rotolarsi sull’erba e dichiararsi amore eterno. I successivi vent’anni terranno fede a quella promessa, con gli amanti che si rincorreranno per buona parte d’Europa, incapaci di dimenticarsi l’uno dell’altra.
Uno degli elementi della pellicola che salta più facilmente all’occhio – e che potrebbe non incontrare il gusto di tutti – è la marcata dualità narrativa. Seppur nella prima parte venga posta una certa attenzione allo sbocciare della passione amorosa tra i due protagonisti, molta più importanza viene data all’inarrestabile scalata al successo dell’accademia ma anche al suo piegarsi alle esigenze politiche che la vogliono privata dei suoi ideali popolari per mettere in bocca ai suoi giovani artisti inni alla grandezza di Stalin e della nazione. Al tempo stesso, cresce il disappunto di Wiktor che non vorrebbe vedere gli ideali del gruppo piegarsi senza ritegno sotto i dettami della politica ma che, alla fine, è costretto ad abbandonare il proprio lavoro per andare a Parigi. Ed è qui che avviene la frattura tra i due, il momento in cui le strade degli amanti si separano e in cui Cold War perde quel suo carattere quasi documentaristico che lo aveva accompagnato fin dai primi fotogrammi. Incapace di abbandonare tutto per un futuro pieno di incognite ma con l’amore della sua vita, Zula decide di rimanere in Polonia aspettando, forse, il ritorno di Wiktor.
COLD WAR E I PICCOLI MOMENTI CHE RACCONTANO IL TUTTO
Quello in cui Pawlikowski riesce magnificamente è il raccontare la sua storia per ellissi. Saltando costantemente dal piano narrativo di Zula a quello di Wiktor, è come se allo spettatore fosse concesso di spiare nelle loro vite solo per un breve istante, lasciando tutto il resto all’immaginazione, come a dire che solo pochissimi momenti delle vite dei due personaggi meritano di essere raccontati nel contesto più ampio della loro storia d’amore. Come se tutto avesse senso solo in virtù di quei fugaci incontri – e talvolta scontri – che aspettano i due sulla scacchiera di un’Europa ancora vessata dalle conseguenza di una guerra sanguinosa e incosciente. Il ritmo che all’inizio dava vigore alla pellicola, perde mano a mano di mordente, fino a farsi sempre meno sostenuto in previsione di un finale che non si può certo dire inaspettato.
A cavallo tra musica popolare, canzoni di propaganda e jazz, ma anche a cavallo tra la carriera in ascesa di Zula e il continuo precipitare nell’abisso di Wiktor, si situa un film visivamente mozzafiato ma che perde potenza quando deve tirare le fila di una storia d’amore totalizzante e, allo stesso tempo, straziante. Ma in questo tourbillon de la vie che travolge i due amanti il tempo si fa relativo e l’unica corsa possibile sembra quella verso la fine.
Cold War sarà in sala dal 20 dicembre con Lucky Red.