Nei film di Kawase Naomi quello con la natura è un rapporto viscerale che spesso si lega indissolubilmente al tema della morte. Da Moe no Suzaku (1997) a Still the Water (2014) passando per Mogari No Mori (2007), la natura delle aree rurali giapponesi – che spesso, a sua volta, si identifica con la prefettura di Nara, luoghi cui Kawase è molto legata – fa da sfondo all’inarrestabile ricerca di qualcosa che è ormai andato perso per sempre, che sia un affetto o il ricordo di un passato felice. Così in Hikari (conosciuto anche come Radiance o Vers la Lumière), ultimo film della cineasta giapponese in concorso al Festival di Cannes lo scorso anno e presentato all’Edinburgh International Film Festival, la natura torna ancora una volta a fare parte del quadro anche se l’azione principale si sposta nel cuore di una caotica città.
Già dai primi fotogrammi vediamo come l’attenzione al dettaglio si faccia maniacale con la fredda minuzia con cui Misako (Misake Ayame) descrive tutto ciò che la circonda a dare il la alla narrazione. È solo poco dopo che scopriamo che Misako lavora alle audiodescrizioni per ipovedenti, un lavoro difficile dove ogni singola parola che viene scelta deve necessariamente passare al vaglio severo di una commissione di non vedenti che assistono, pazienti, a numerose visioni preparatorie. Tra questi, Nakamori (Nagase Masatoshi) è un ex fotografo la cui vista si sta lentamente deteriorando e che, proprio per questo motivo, si sente in dovere di dare giudizi durissimi e spesso sgarbati sul lavoro di Misako la quale, a sua volta, non si lascia scappare l’occasione di ribattere affondando anche colpi dolorosi. Da queste spiacevoli premesse ha inizio il rapporto tra i due, un rapporto che a poco a poco si fa sempre più intimo, dove le spinte opposte e contrarie a mettersi nelle mani e a prendersi cura dell’altro si fanno poli attorno a cui ruota l’azione.
Costruendosi come un’elegante ode al potere evocativo del cinema che si esplica come rapporto simbiotico tra immagine e parola, in Hikari Kawase incastona le storie personali di due anime ferite, sebbene in modi diversi. Se infatti alle spalle di Misako abbiamo un lutto – la scomparsa del padre nel cuore della foresta che circonda la sua casa d’infanzia – e un rapporto difficile con l’anziana madre ormai affetta da demenza senile, Nakamori è invece tormentato da altri demoni e da una rabbia implacabile per la vista che lo sta abbandonando e che gli impedisce di continuare a scattare fotografie, unica vera passione della sua vita. Fil rouge è quello struggimento verso la caducità delle cose terrene, quel pianto per tutto ciò che è andato perso, che è semplicemente scomparso di fronte ai nostri occhi.
In un mondo in cui non facciamo altro che erigere mausolei di bellezza e tristezza intitolati al ricordo, la parola sembra diventare l’unica speranza di salvezza. L’unico mezzo per ristabilire un equilibrio e, talvolta, per ridare un senso a tutte le cose. Presentandosi come una sorta di racconto di formazione, Hikari ci mostra il percorso di crescita di Misako, dall’accettazione della propria fallibilità, alla presa di coscienza che talvolta si possa e si debba mettere da parte se stessi per dare importanza all’altro, passando infine per il suo aver fatto i conti con un passato che non può più tornare. Ma allo stesso tempo è anche Nakamori che deve intraprendere un mutamento. Parallelamente alla perdita della vista, l’uomo vede sfuggirgli dalle mani un’autonomia che aveva data per scontata e che lo porta ad accettare, sebbene con riluttanza, di aver bisogno di qualcun altro per poter vivere.
Circonfuso da una luce calda che, in alcune scene, abbraccia e quasi ingloba i personaggi, Hikari è un’aggiunta assai gradita alla filmografia di Kawase. Riallacciandosi a quei film così genuinamente intimisti e gentili che avevano caratterizzato la prima parte della sua carriera, questa nuova pellicola riesce a cancellare con un colpo di spugna il poco riuscito Le ricette della signora Toku (An) infondendo ancora una volta carattere all’opera della cineasta nipponica.