Succede tutto e niente a Sophia Antipolis, distretto tecnologico a metà strada tra Nizza e Cannes: tutto, perché il parigino Virgil Vernier orchestra una narrazione multistream legata a livello geografico dal tecnopolo francese e sul piano tematico dalla misteriosa scomparsa di una ragazza, dunque il massimo della fertilità creativa. Nulla, perché le storie che si intrecciano non lo sono, o quantomeno sembrano averne le fattezze solo in parte, galleggianti come sembrano tra il lirismo e la cura fin troppo scolastica dell’immagine. Nella Silicon Valley europea la produttività ha il primato sul benessere di chi la abita: laddove regna il progresso smisurato si nascondono i drammi umani più tragici, sembra sottintendere Vernier, e a poco serve il nome grecizzante scelto dai fondatori, all’apparenza richiamo ai fasti della civiltà occidentale e nei fatti una anti-polis più che Antipolis, ossia Antibes, località francese da cui trae ispirazione.
In Sophia Antipolis, presentato in concorso al 71. Locarno Festival nella sezione Cineasti del Presente e disponibile in streaming gratuito su Festival Scope, c’è allora spazio per una vedova annoiata che trova sollievo negli incontri con un mistico santone, e poi un giovanotto di ritorno dalle piattaforme petrolifere ora guardiano di notte in periferia, e ancora una sensitiva che crede la figlia rapita da corpi extraterrestri. I bozzetti malinconici si alternano a vedute evocative tra spiaggia e mare, tramonto e notte fonda, sempre con riferimenti e vaghi indizi riguardo l’allegorica scomparsa di Sophia. Il caldo di fine Agosto rende poi netto il contrasto tra la Costa Azzurra vacanziera e i fatiscenti mostri urbani che legano i fatti dei protagonisti. In questo senso il film ha gioco facile nel restituire toni e atmosfere un po’ e avvilenti e un po’ depresse, con monologhi e dialoghi off-screen fin troppo artificiosi. Colpisce la scelta di rifiutare a priori l’utilizzo della colonna sonora, che sempre nel discorso dei toni distopici alimenta l’ostentata mediocrità delle vite disumanizzate di chi si ritrova ingabbiato in quel finto splendore. Con il taglio del documentario appena romanzato – non a caso il regista viene anche da quel mondo – si procede in una sorta di analisi sociologica dei tipi umani distrutti dalla città, ma il problema principale sembra risiedere proprio nella volontà di calare dall’alto una dimensione eccessivamente poetica su di una realtà ordinaria, lineare, continuamente condannata proprio perché alienante.
Così non viene mostrato niente che non sia già accaduto, si arriva a eventi conclusi per poi essere messi al corrente dei fatti dalle parole, anche troppe e troppo ispirate, dei tanti personaggi. Il risultato è che le cinque narrazioni giustapposte hanno tutte il medesimo sapore: la situazione per i loro protagonisti è irrimediabile, statica e sempre tendente al peggio. Vernier non contento esagera, ce la mette tutta nel tentativo di dimostrarsi il primo della classe e nel complesso va oltre il seminato: il formato, la fotografia, la pellicola sbandierata, la cura per la composizione interna dell’inquadratura, la camera spesso fissa e le pochissime informazioni espositive sui personaggi manifestano tutte le intenzioni del prodotto finale, che stando al suo gioco troverebbe pure una strada riconoscibile e condivisibile, ma purtroppo mai completamente risolta e a tratti ai limiti dello stucchevole; ed è un peccato, perché di critiche alle storture di certi sistemi produttivi ed economici il cinema occidentale ne avrebbe bisogno eccome, ma certamente non con questi modi affettati e lagnosi.