Quando, da completi neofiti, si comincia a guardare all’Oriente si ha spesso la spiacevole sensazione di starci per affacciare su un mondo schivo, chiuso in una fitta rete di regole, difficile quindi da penetrare o quantomeno comprendere. Al tempo stesso però non dovremmo cedere alla facile tentazione di pensare che tutto debba essere necessariamente più oscuro di quanto sembri, di abbandonarci allo stereotipo o alla generalizzazione. Non dobbiamo quindi finire per definire l’Oriente solo in contrapposizione alla nostra idea di identità occidentale e chiuderci, per esclusione, a tutto quello che ci sembra diverso. Unica via diventa allora quella di spogliarci di ogni preconcetto, di ogni categoria e mostrarci completamente nudi di fronte al soggetto che vorremmo trattare. Ed è esattamente questo l’atteggiamento che cogliamo in controluce in Closing Time, ultimo lavoro della regista svizzera Nicole Vögele, presentato al 71esimo Festival di Locarno nella sezione Cineasti del Presente, insignito del Premio Speciale della Giuria Ciné+ e disponibile in streaming gratuito fino al 31 agosto su Festival Scope.
Vera e propria città che non dorme mai, Taipei si fa specchio e monito di ciò in cui la società contemporanea si sta trasformando: un intrico di vite sconnesse, costantemente impegnate a rincorrere il profitto, un dedalo in cui non si dorme mai e dove il testimone è continuamente passato dalle mani dei lavoratori diurni a quelle di chi lavora solo quando cala il sole. In questo incubo capitalista, Vögele sceglie di puntare la sua macchina da presa su Kuo e sua moglie Lin, gestori di un piccolo ristoro i cui unici avventori sono altri che, come loro, si ritrovano a lavorare solamente di notte. Ma la preoccupazione prima della regista non è tanto quella di costruire una storia, di incollare lo spettatore allo schermo grazie a una trama stringente, di fornirgli il seppur minimo pretesto di immedesimazione, bensì Vögele si sofferma sui vuoti narrativi, su tutti quegli attimi che costituiscono non tanto l’inazione quanto una pura e semplice mancanza di avvenimenti significativi.
Guardando Closing Time la sensazione che se ne riceve è che lo scorrere del tempo si faccia quasi materiale, come se fossimo finalmente portati a renderci conto di una cosa che, con eccessiva naturalezza, ci scivola invece addosso secondo dopo secondo. Fissando la telecamera su un mare in tempesta, un incrocio trafficato all’improvviso da centinaia di motorini e auto o una scuola sotto a un cavalcavia in cui alcune persone praticano arti marziali, lo spettatore si trova costretto a fissare la propria attenzione su dettagli che solitamente non trovano spazio in un film. Su tutto prevale però la gratitudine che si prova nei confronti di Vögele per averci concesso di assistere a piccoli spaccati di vita, a scene che trasudano intimità e che, per il solo fatto di svolgersi di notte e quindi a un’ora in cui generalmente il mondo ci è precluso, hanno quel vago fascino che ammanta una visione rara.
È quando Vögele si sofferma sul brulichio degli uomini e sulla quotidianità di azioni come rompere le uova o sbucciare delle verdure che ci rendiamo conto della struttura narrativa del film. Benché a tratti sembri che Closing Time voglia mostrarci la ripetitività di un’esistenza dedita soltanto al lavoro, non abbiamo mai un’inquadratura uguale all’altra e l’occhio di sposta su dettagli sempre nuovi anche quando in primo piano ci sono personaggi già visti.
Ma in ultima battuta, la dicotomia più interessante del film è quella tra uomo e natura. Costretto in una routine ferrea, Kuo è solito recarsi al mercato notturno di Taipei per comprare i prodotti di cui avranno bisogno in cucina per la notte stessa finché un giorno, sulla strada di casa, non decide di cambiare rotta e imbarcarsi in un viaggio in solitaria, senza una meta precisa ma dettato solo da un impulso primordiale alla fuga. Lasciandosi la città alle spalle, Vögele ci accompagna in un mondo rurale, dove la presenza dell’uomo si riduce fino quasi a scomparire o a confondersi tra la vegetazione. Laddove il film si apre sull’infuriare della natura con l’approssimarsi di una tempesta, il suo epilogo vede l’uomo in contemplazione e in armonia con questa. Un uomo che sembra aver scoperto un’alba finalmente diversa da cui non ci è dato sapere se vorrà più staccarsi.