È Graves Without a Name (Les Tombeaux Sans Noms), nuovo capitolo nel percorso di ricerca interiore del regista cambogiano Rithy Panh, ad aprire la XV edizione delle Giornate degli Autori nell’ambito della 75. Mostra del Cinema di Venezia.
Con il documentario – un lavoro decisamente ambizioso che succede a L’Immagine Mancante e Exile – l’autore 54enne ripercorre attraverso la macchina da presa la tragedia del genocidio cambogiano della fine degli anni Settanta. Un dramma vissuto in prima persona da Rithy Panh, che trovò la salvezza rifugiandosi prima in Thailandia e poi in Francia, a differenza dei genitori, che caddero vittime della violenza dei Khmer rossi. Rispetto a Site 21, in cui raccontava la situazione di altri profughi cambogiani scampati al peggio, qui il regista viaggia alla ricerca delle tombe dei suoi familiari senza seguire una direzione ben precisa; dai riti degli anziani per provare a comunicare con i propri cari defunti passando per i racconti di chi è stato miracolato dal karma – che in questo lungometraggio protagonista in una riflessione esistenziale.
«A volte la morte è un vento che si placa con grande dolcezza» afferma la voce narrante di Randal Douc, che accompagna le carrellate dei terreni di Phnom Penh, la capitale cambogiana. Ed è proprio la morte, e il rapporto dell’uomo con essa, al centro di tutto: al suo fianco troviamo la ritualità e la filosofia, il dramma del sangue e la violenza della guerra, la fame e la voglia di rivalsa. Il racconto dei testimoni permette di trasmettere allo spettatore, anche visivamente, la portata della tragedia vissuta da milioni – circa due secondo le stime degli storici – di Cambogiani.
Le parole dei contadini, accompagnate da un commento sonoro straordinario, risuonano come un’eco: corpi mai sepolti ma abbandonati al loro destino, la fame patita da anziani e bambini, la crudeltà dei militari e di coloro che «avevano il potere». Esecuzioni, carestie e assenza di cure mediche: l’essere umano che arriva a non contare nulla, «trattato come un animale». Rithy Panh ha voluto mettere in evidenza inoltre un ulteriore aspetto: le conseguenze per il popolo cambogiano del genocidio, il ‘Bak smat’, ovvero il disturbo psicologico diffuso in tutto il paese; una pesante eredità tramandata a generazioni future. Infine, come sottolineato in precedenza, il ruolo del karma e la rabbia di chi ha perso genitori, nonni, amici o semplici colleghi: nell’immaginario collettivo una chiave di lettura della vicenda è legata al karma negativo, un dramma imposto senza volerlo, «qualcosa che non ci meritavamo».
Il commento sonoro di Graves Without a Name (Les Tombeaux Sans Noms) è semplicemente straordinario: Marc Marder, insieme a Eric Tisserand, Vann Sereyrathanan e Julien Ngo Trong, riesce a coniugare straordinariamente l’emozione le sensazioni percepite attraverso le immagini o i racconti degli intervistati. Non manca però qualche difetto: un po’ troppi i 115′ della pellicola; alcune sequenze già viste o non necessarie potevano tranquillamente essere tagliate. Infine, decisamente eccessivo il numero di carrellate sui terreni sperduti della Cambogia.