Ben lontani dai soliti fantasmi, demoni, o presenze soprannaturali, l’approccio al genere horror degli esordienti Rahi Anil Barve e Adesh Prasad è assai più sofisticato. Incastonando il loro Tumbbad in una cornice mitologica, i due registi indiani confezionano una pellicola che si siede a cavallo tra favola morale e spaccato storico dell’India del Novecento, tra dominio britannico e ritrovata indipendenza. Selezionato come film d’apertura della 33esima edizione della Settimana Internazionale della Critica, Tumbbad sposa un ritmo piuttosto convincente con una fotografia che si presenta come indiscusso fiore all’occhiello.
Primo figlio della Dea della Fertilità, Hastar è ossessionato dal cibo e dall’oro. Non appena riesce a rubare dalla madre parte dell’oro che amministra, tenta di trafugare anche il cibo per saziare la sua fame. I suoi fratelli, in preda alla collera, cercano di fermarlo e quasi lo uccidono ma la Dea interviene e riesce a salvare il figlio prediletto che da quel giorno in avanti vivrà all’interno del suo grembo dimenticato da tutti. Vinayak (Dhundiraj Prabhakar Jogalekar e Sohum Shah da adulto), figlio illegittimo del signore locale, viene a sapere che nel palazzo del padre non solo si venera il dio maledetto Hastar ma si trova anche un tesoro potenzialmente infinito. Quando la nonna, colpita decenni prima dalla maledizione del dio, lo mette a parte dell’esatta ubicazione del tesoro, Vinayak è però costretto a lasciare Tumbbad per recarsi in città e promette quindi alla madre di abbandonare la sua sete di ricchezza. Quindici anni dopo fa ritorno al luogo natio e la sua cupidigia innesca una terribile catena di eventi.
Non appena le prime immagini cominciano a muoversi sullo schermo non si può fare a meno di storcere leggermente la bocca per una CGI a tratti troppo pacchiana per poter risultare piacevole ma che si assesta poi su un intervento molto più fluido quando lo sforzo creativo viene ridimensionato da esigenze di copione. Barve e Prasad si fanno però perdonare presto investendo tutte le loro energie nell’ottima fotografia che arricchisce Tumbbad. A tratti vicino alle atmosfere maestose e favolistiche del Tarsem Singh di The Fall ma con toni più cupi e gore, è indubbio che i due registi abbiano puntato molto sul gioco di inquadrature e su certe composizioni assai scenografiche che fissano nella memoria alcuni dei momenti più rilevanti della trama.
Giocando sul pantheon di divinità induiste e aggiungendovi un dio estromesso come pretesto narrativo, Tumbbad non dimentica il contesto storico in cui è ambientato. Prendendo le mosse dall’India dell’inizio del XIX secolo siamo dapprima calati in un contesto rurale ben lontano da qualsivoglia forma di innovazione tecnologica e più prono a un misticismo religioso che esige rispetto delle regole. In seguito, con lo spostamento del protagonista nella città di Pune e il balzo temporale in avanti di ben quindici anni, siamo invece catapultati nell’India del 1933 quindi in pieno dominio britannico. Macchine e motociclette fanno adesso la loro comparsa in mano agli indiani più facoltosi mentre si nomina Gandhi e si tenta di tenersi amico un militare inglese per strappare qualche agevolazione commerciale. Quattordici anni avanti e l’ultimo capitolo del film si chiude su un paese che è riuscito, da pochissimo, a riabbracciare l’indipendenza. Se interesse del film non è quello di presentarsi come documento storico, quei brevi cenni alla storia indiana che vengono disseminati qua e là lungo la storia dimostrano la volontà dei due registi di presentare a un pubblico internazionale un prodotto che ben si colloca nel suo contesto storico senza però perdersi in riflessioni approfondite o attacchi politici che avrebbero potuto distogliere l’attenzione dalla materia trattata.
Tra i confini di una società spiccatamente patriarcale in cui, prima che Gandhi riuscisse a portare un cambiamento, alle vedove spettava il crudele destino di essere bruciate vive sulla pira del marito, è interessante vedere come le figure femminili vengono trattate nel film. Laddove la madre di Vinayak ha a cuore la sorte dei figli e non si fa scalfire minimamente dall’avidità, la nonna paterna è la prima persona che vediamo cadere vittima della maledizione di Hastar. Presentata come una figura negativa, quasi demoniaca, la donna è relegata in una stanza, incatenata al letto e nutrita durante il sonno nella speranza che possa non svegliarsi mai. Se Tumbbad può assurgere a comunità matriarcale, soprattutto per la presenza del tempio/grembo/prigione di Hastar all’interno del palazzo del Sarkar, Pune è indubbiamente sede del patriarcato. Qua le donne sono amanti, mogli, madri, merce da vendere e comprare o passarsi di padre in figlio come eredità. Dove imperante è la complicità maschile e dove il figlio smette di confidarsi con la madre non appena si fa uomo, alla donna spetta solo la cura del focolare senza necessità alcuna che si impicci in affari più grandi di lei. Impossibilitata ad avere la sua indipendenza e limitata nei propri movimenti da una società rigida, la donna riesce comunque a ritagliarsi il suo ruolo all’interno della pellicola, un ruolo purtroppo marginale ma che riesce pur sempre a gettare una luce su un mondo lontano dal nostro.
Prendendo a pretesto la mitologia, l’operazione che fa Tumbbad è di certo assai lodevole. Quella che vediamo sullo schermo è senza dubbio una ben riuscita favola horror che non dimentica di farsi anche portavoce di una ferma denuncia dell’avidità e della hybris umana, mostrando le terribili conseguenze in cui si incorre quando si è sciocchi abbastanza da mettersi contro una divinità fuori controllo. Inaspettatamente scelto per aprire una sezione così importante della Mostra del Cinema di Venezia, ci si auspica che con questo film l’attenzione del pubblico possa finalmente vergere su un cinema indiano ben diverso dai lustrini e dai balli di Bollywood per condurlo verso un panorama assai più ricco di generi e sorprese.