Non ci sono dubbi sul fatto che Alfonso Cuarón sia un regista di straordinario talento artistico e tecnico, eppure i suoi lavori degli ultimi 15 anni difficilmente lascerebbero presagire quel che vi troverete davanti guardando Roma, il suo nuovo titolo arrivato in concorso alla 75. Mostra del Cinema di Venezia come originale Netflix.
Dopo Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban, I Figli degli Uomini e Gravity, il cineasta reso noto dai suoi virtuosismi con i pianisequenza ci trascina infatti in una Città del Messico dei primi anni ’70, per un’opera verista e in bianco e nero dallo spiccato carattere intimista e autobiografico.
È evidente come per il regista messicano Roma sia il lavoro di una vita; un capolavoro di inaudita potenza cui si è dedicato con assoluta devozione, un racconto che non ha paura di prendersi i suoi tempi – anche grazie a una costruzione estremamente lenta e graduale della storia – e che non a caso arriva agli spettatori durante l’apice del trumpismo, per testimoniare un dirompente e accorato messaggio politico.
ROMA CI VUOLE DIMOSTRARE I NOSTRI LIMITI DI SPETTATORI
In molti vi diranno che Roma (il cui titolo viene dal nome di un quartiere residenziale di Mexico City) propone tre storie in contemporanea: quella dei tumulti sociopolitici che agitarono il Messico di quegli anni, quella di una famiglia borghese in cui la madre si prende cura dei bambini supplendo alla continua assenza del padre, e quella di una ragazza di origini indigene che lavora come domestica per la suddetta famiglia. Tre filoni che si alternano e intrecciano apparentemente senza grande consequenzialità, creando un confuso affresco che per la prima ora di film sembra girare a vuoto e arriva addirittura ad annoiare lo spettatore meno attento. Quasi come guardare – con distacco – un album affollato di vecchie foto che testimoniano in ogni dettaglio vite distanti.
La verità è che Roma non è principalmente un racconto collettivo (per quanto la prospettiva corale aiuti a comprendere il punto di osservazione da cui ci fa partire il cineasta), e che Cuarón ci mostra sin dalle primissime immagini come l’unica vera protagonista del film sia Cleo (l’impressionante esordiente Yalitza Aparicio), prendendosi poi tutto il tempo che crede per dimostrarci un concetto che è alla base stessa del film: gli ultimi sono invisibili.
Col senno di poi, infatti, sarà assolutamente chiaro che tutto ciò che vediamo accadere sullo schermo è funzionale alla storia di questa ragazza che parla un po’ Spagnolo e un po’ Mixteco, e che con devozione, affetto e senso di responsabilità dedica l’intera sua vita (o quasi) a prendersi cura dei residenti di quella casa, divenendo una parte importante nel loro panorama emotivo.
DOPO OLTRE UN’ORA DI COSTRUZIONE, CUARÓN È PRONTO A DISPORRE DELLE NOSTRE EMOZIONI
Come ci ha detto Alfonso Cuarón in una rapida chiacchierata Veneziana, «Quando cresci con qualcuno che ami, non ti fai domande sulla sua identità», e per raccontare la storia vera della sua amata ‘tata’ (Cuarón è uno dei bambini del film, e la casa che vediamo è la meticolosa – maniacale – ricostruzione dell’abitazione d’infanzia del regista), il Messicano stesso ha dovuto compiere un portentoso sforzo di estraniamento per acquisire una prospettiva tridimensionale di quella che nel film è diventata Cleo, e scavare per riscoprire la donna che non ha conosciuto, con la sua dimensione affettiva e sessuale, con le sue aspettative e le sue sconfitte.
Sono gli ultimi 50 minuti del film che infatti l’autore usa per risvegliarci dal nostro torpore di spettatori occidentali e per sbatterci in faccia che la protagonista era lì, davanti ai nostri occhi, ma che una domestica messicana ‘vale troppo poco’ perché possiamo accorgerci da subito che è lei il vero fulcro della storia.
Come tutta un’umanità ‘di serie B’ fatta di immigrati fondamentali ma silenziosi, che hanno costruito il benessere degli Americani ma contro cui il nuovo populismo reazionario ha intrapreso un’inutile crociata politica, così Cleo è il cuore pulsante di quella famiglia anche nei momenti in cui la madre è troppo sconvolta dai problemi col marito per occuparsi dei figli. Cleo c’è, ama quei bambini ed è amata, e nonostante passi le giornate in una casa che non è la sua, ha una vita che si proietta all’esterno, come un’ombra troppo bassa per destare l’attenzione di chi sta in alto. Cleo ha una vita dura e che deve lasciare fuori dal suo luogo di lavoro, ma Cuarón non ha alcuna intenzione di assecondarci mentre continuiamo a ignorarla.
Quel lungo rumore esistenziale in cui il regista e autore fa crescere il suo affresco umano nella prima metà della pellicola, vedrà il proprio labile equilibrio crollare in tre scene che si succederanno a poche decine di minuti di distanza l’una dall’altra; tre tappe importanti della vita di Cleo che verranno portate sullo schermo proprio con quei pianisequenza che hanno dato lustro al linguaggio del Messicano. Saranno una sommossa di strada, una nascita, e una sfida ai flutti marini a travolgere con una potenza tellurica lo spettatore, trascinandolo in una storia che faticava a sentire sua e straziandone l’anima; trasformano una storia che sembrava inconcludente in uno struggente ritratto pieno di umanità e amore.
IL MIGLIORE E PIÙ IMPORTANTE FILM NETFLIX DI SEMPRE
Il linguaggio di Roma recupera sì i movimenti di macchina più cari al suo regista, ma rappresenta anche un unicum nella sua filmografia. Alla fotografia – per ragioni di calendarizzazione delle riprese – non ritroviamo l’immancabile Emmanuel ‘Chivo’ Lubezki ma lo stesso Cuarón, che manovra anche la macchina da presa, firma la sceneggiatura e produce. Per conseguire un bianco e nero moderno, fatto non di forti contrasti e ombre compresse ma di una scala di grigi incredibilmente ampia, l’autore opta per il 65mm digitale della Arri Alexa, regalandoci una gamma dinamica mozzafiato (complice la leggera sovraesposizione che ben si concilia con la prevalenza di riprese in interni).
La negazione del colore – una delle costanti del progetto sin dalla sua concezione iniziale, per rapportarlo ai limiti della realtà ricostruita attraverso la memoria – è accompagnata a scene tanto vive e dettagliate da non dare l’impressione di un espediente autorialoide, ed è il superlativo lavoro al comparto audio a infondere vita pulsante alle immagini che si alternano sulle schermo.
La folle ricerca della verità da parte di Cuarón, per cui evidentemente si tratta di qualcosa di più di un ‘semplice’ film, traspare dall’incredibile lavoro del comparto scenografico, chiamato a ricostruire stanza per stanza la casa d’infanzia del regista, riproducendone addirittura i mosaici, e utilizzando al 70% i mobili e i giochi originali (recuperati in giro per tutto il Messico con un difficilissimo lavoro di ricostruzione dei vari passaggi di proprietà nell’ultimo mezzo secolo).
In conclusione Roma è di gran lunga una delle più belle pellicole mai prodotte da Netflix – forse la migliore – e che, qualora si arrivasse a una ventilata uscita in sala in parallelo con la release streaming, vi consiglieremmo con il massimo trasporto di vedere sul grande schermo. Roma rappresenta un invito allo spettatore a non dare per scontata la complessità della vita di chi siamo abituati a vederci accanto o di chi, al contrario, troppo spesso etichettiamo come ‘altro’ o subalterno. Una storia commovente e intensissima, che non manca di citare (o omaggiare) lungo il suo metraggio tutti i precedenti titoli di Alfonso Cuarón. Su Netflix dal 14 dicembre.