Capita spesso che ci siano certi film che ancor prima di vederli sappiamo già che ci dovranno piacere, magari perché il trailer pareva piuttosto ben fatto, oppure perché nella sinossi un paio di parole hanno risuonato tra i nostri interessi. Il dramma è quando, una volta visto quel film, le nostre aspettative vengono brutalmente spazzate via dalla dose di oggettiva perplessità che ci è stata sbattuta davanti. Dopo la visione di M, opera prima della popstar finlandese Anna Eriksson scelta dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici per essere inserita nella rosa dei film in concorso alla Settimana della Critica, ci sentiamo esattamente così: perplessi.
Ogni tentativo di riassumere la trama si fa questa volta tanto difficile quanto inutile. M – ed Eriksson con lui – fa palese rifiuto di una narrazione che saremmo quasi tentati di definire classica, abbracciando una trama sufficientemente inconsistente e spesso oscura. A grandi linee potremmo però dire che M è costituito al 70% da Anna Eriksson in parrucca bionda e tacchi a spillo totalmente nuda in vari luoghi e posizioni mentre compie numerose e significative azioni come spazzolarsi i peli pubici seduta su una sedia guardando fissa la telecamera. Al 30% è composto invece da: a) un inutile personaggio maschile che ascolta conversazioni sconce registrate fissando il vuoto con desolazione; b) una donna che cammina senza meta fumando una sigaretta con espressione corrucciata; c) messicani e cani; d) uno psicopatico che cuce falene sotto lembi di pelle di un cadavere e ne estrae altre dalla sua bocca. A un certo punto si segnala anche un blando riferimento a Marilyn Monroe che forse dovrebbe spiegare la parrucca platino di Eriksson e fare una vaga luce sull’intero trip allucinatorio a cui abbiamo assistito per più di un’ora. Spoiler: non ci riesce più di tanto.
Presentato come un’opera che vuole indagare sul morboso e complesso rapporto tra il sesso e la morte, M sembra perdersi più nel tentativo di mettere in scena qualcosa che possa risultare più scenografico e provocatorio che realmente significativo. Perdendosi in un mare di riferimenti filmici dal body horror di cronenberghiana memoria a quel cinema del surreale grottesco che caratterizza le pellicole di David Lynch, Eriksson mette nel calderone troppi ingredienti e finisce per dare vita a una creatura con alcune buone idee ma anche tanta confusione.
Se (non tanto) tra le righe si percepisce il tentativo di Eriksson di riappropriarsi della figura della donna e della sua rappresentazione senza alcun pudore sfuggendo quindi a quel male gaze che tanto ha dominato l’industria filmica hollywoodiana, al tempo stesso M finisce per cadere in una sorta di vertice di autoerotismo con una regista che non solo si piazza dietro all’occhio della telecamera, ma è anche attrice principale e sceneggiatrice. Inoltre, così come è lodevole lo sforzo di de-sessualizzazione della vagina e la conseguente scelta di mostrarla straziata e insanguinata mentre un lungo pezzo di carne (placenta?) ne viene estratto come a significare il fallimento di ciò in cui la società vorrebbe racchiudere la donna – il parto e la maternità – le vette di liberalizzazione e riappropriazione della rappresentazione femminile che si toccano in lavori come Menses di Barbara Hammer sono assai lontane.
Probabilmente congegnata come un’acuta e artificiosa condanna alla politica cinematografica hollywoodiana che vuole le sue attrici belle, modeste e un po’ stupide – non a caso si va a citare Monroe e, in una scena, si ricostruisce un talk-show dove una vecchia star del cinema viene mostrata in tutto il suo decadente splendore – M si perde in una mare fin troppo vasto di idee e ispirazioni risentendo dell’inesperienza di un’autrice che ha voluto accentrare su di sé fin troppi ruoli. Nonostante tutto però non si può sconsigliarne totalmente la visione. Il lavoro di Eriksson è decisamente audace e spregiudicato ma presenta in nuce alcune buone idee e un talento visivo che potrebbe solo aver bisogno di tempo per sbocciare appieno.