Quattro fratelli, due automobili che attraversano il deserto e un cadavere nel bagagliaio: l’inizio di As I Lay Dying (titolo originale Hamchenan Ke Mimordam), film dell’esordiente iraniano Mostafa Sayari presentato nella sezione Orizzonti alla 75. Mostra del Cinema di Venezia e ora disponibile in streaming su FestivalScope fino al 19 settembre, ci mostra uno spunto decisamente stimolante e originale per iniziare un viaggio. Ma quello che sembra essere un road movie capace di sviluppare dinamiche interessanti diventa ben presto un’odissea esistenzialista, priva di una vera traccia narrativa, che rimane sospesa in un limbo estenuante e superficiale nonostante le ambizioni di fondo.
L’OMONIMO ROMANZO DI WILLIAM FAULKNER
Ispirato all’omonimo romanzo di William Faulkner, As I Lay Dying racconta la vicenda di quattro fratelli (Nader Fallah, Elham Korda, Majid Aghakarimi e Vahid Rad) che affrontano la morte del padre: uno di loro, il figlio di secondo letto, per rispettare le ultime volontà del defunto convince gli altri tre a mettersi in viaggio con il cadavere nel bagagliaio: la destinazione è un remoto e sperduto villaggio nel quale il loro padre aveva chiesto di essere seppellito. Durante il tragitto, mentre il caldo picchia sulle auto dei protagonisti, il corpo inizia a decomporsi e le tensioni fra i quattro fratelli iniziano lentamente ad emergere fino a far esplodere rancori, incomprensioni e rivalità mai veramente superate (soprattutto fra il figlio “illegittimo” e il primogenito).
UN DESERTO ESISTENZIALE
Il deserto attraversato dai quattro fratelli è fin troppo simbolico: si tratta infatti di un deserto esistenziale, quasi claustrofobico, una prigione dell’anima dei suoi quattro protagonisti incapaci di comunicare fra loro e con se stessi. Per questo la famiglia allargata di As I Lay Dying è in realtà una trincea costruita per respingere i rapporti umani, la conoscenza delle proprie radici, la comprensione dei propri padri. L’affresco di Sayari cerca di rappresentare (o almeno ci prova) questo corto circuito generazionale e storico infarcendo la narrazione di piccoli aneddoti, misteri e depistaggi. Ai rarissimi dialoghi quasi monosillabici alterna lunghe pause silenziose, concentrando spesso l’inquadratura in primi piani enigmatici e sguardi che puntano fuori campo in una zona che non ci viene mai mostrata. La decomposizione del corpo del padre fa il paio dunque con la destrutturazione quasi angosciante di una storia familiare e dei suoi affetti. E fin qui ci siamo.
Eppure questa ricerca di significato si trasforma in una indeterminatezza senza via di fuga ed è un peccato perché gli attori sono ottimi nella loro costante titubanza verso il viaggio che hanno intrapreso i loro personaggi; anche la regia, accoppiata all’ottima fotografia di Hamed Hosseini Sangari, restituisce delle immagini potenti, soprattutto quando vaga senza meta per i panorami desertici della profonda provincia iraniana. Ma tutto si risolve (o meglio, non si risolve) nella snervante indecifrabilità di ciò che il regista mette in scena: troppo poco per coinvolgere lo spettatore, che alla lunga rischia di decomporsi lentamente proprio come il cadavere nel bagagliaio.