Presentato alla 75. Mostra del Cinema di Venezia, nella categoria Orizzonti dove ha conquistato il premio per la miglior sceneggiatura, Jinpa di Pema Tseden è un film che viene da lontanissimo, ambientato fra le più impervie montagne del Tibet. Nell’altopiano del Kekexili infatti è praticamente impossibile vivere, a causa di un territorio arido, della mancanza di lavoro e della grande lontananza da tutto ciò che è civilizzato.
In questa cornice ha luogo la vicenda di Jinpa, un camionista che, mentre guida da sola ascoltando “O Sole mio” e bevendo grappa, investe e uccide una pecora. Pochi metri dopo egli incrocia un viandante sul ciglio della strada, il quale gli comunica di essere da dieci anni in cerca dell’uomo che ha ucciso suo padre. I due individui condividono il nome “Jinpa” e sostengono entrambi che esso gli sia stato dato da un lama.
Il film si apre con lo splendido scenario di una strada vuota che sembra estendersi all’infinito, tutt’intorno alla quale si stagliano poi le montagne tibetane, le quali adombrano tutto il territorio e formano un muro oltre il quale è impossibile vedere. Il paesaggio è certamente la cosa più interessante di Jinpa, una sorta di racconto filosofico e rarefatto di un’anima “spezzata in due”.
Ben presto si intuisce infatti che i due Jinpa sono in realtà due lati di una stessa medaglia, due “doppelgänger”. Da una parte il camionista buono (il “good Jinpa”, per vederla alla Twin Peaks) che è così caritatevole da portare la pecora in un monastero per farla benedire dopo la sua dipartita, mentre dall’altra il possibile assassino (il “bad Jinpa”) che pensa solamente a vendicare la morte del proprio genitore. La pellicole viene poi narrata con una schema molto semplice: vediamo le stesse scene ripetute due volte; prima con protagonista il Jinpa buono (a colori) poi il Jinpa cattivo in bianco e nero.
Abbiamo usato il termine rarefatto per non abusare di “noioso”, ovvero ciò che, purtroppo, è Jinpa. Dura ottanta minuti, nei quali accadono pochissime cose (che per giunta sono ripetute due volte!) e che di rado sono interessanti per lo spettatore. Pema Tseden aspira a creare un’opera d’autore e onirica, che dovrebbe essere un’esperienza per lo spettatore. Ciò su cui si sarebbe dovuto concentrare, anziché farci vedere le stesse scene due volte, sono proprio gli elementi del paesaggio tibetano e le sue tradizioni. D’altronde, il film specifica che il luogo dove è ambientato è uno dei più impervi del mondo. Dato che non ci potremo mai andare, perché non mostrarcelo di più?