Quello di Mike Flanagan, lo showrunner di The Haunting of Hill House – la nuova serie horror di Netflix che debutta sulla piattaforma il 12 ottobre – è un nome che potrebbe non dirvi molto; se però aggiungiamo che il regista, sceneggiatore e montatore statunitense ha girato titoli come Il Gioco di Gerald, Ouija: Le Origini del Male, Somnia, Oculus e Absentia, ci sono allora ottime probabilità che, qualora siate amanti dei film del terrore, abbiate visto almeno uno dei suddetti film.
UNA STORIA CORALE PER UN CLASSICO DEL GENERE
Flanagan è un autore esperto, e la sua grande dimestichezza con la macchina da presa è evidente sin dal primo episodio di questa nuova riuscitissima produzione, che pur riportando inevitabilmente alla mente l’ottima prima stagione di American Horror Story, se ne differenzia nettamente per una confezione e una scrittura decisamente più eleganti e sofisticate.
Hill House (questo il titolo italiano) è sostanzialmente una storia corale e, portandoci sin dall’inizio su due linee temporali, racconta il presente e il passato di una famiglia piuttosto problematica.
Sembra che ogni difficoltà della vita dei Crain sia in qualche modo legata al periodo passato durante l’infanzia nella “casa sulla collina” del titolo, e a infestare le esistenze dei comprimari ci sono infatti non solo presenze metafisiche, ma il passato stesso; una realtà profonda con cui fare i conti anche negli incubi. «I sogni straripano», come spiega il capofamiglia all’inizio del pilot per rassicurare i bambini sulle loro inquietanti visioni, ma sarà presto evidente che la rottura degli argini della realtà sarà impossibile da ignorare e che, davanti a forze inspiegabili, l’unica soluzione possibile sarà coalizzarsi.
L’IMPORTANZA DI UN’ATMOSFERA CUPA E MALINCONICA
Questa nuova riuscitissima serie Netflix è sostanzialmente un prodotto di natura derivativa, che pesca a piene mani dalla più ampia collezione di topoi sui fantasmi che riusciate a immaginare; eppure, nel suo giocare con il già visto, riesce a vantare una solidità di tutto rispetto. A colpire lo spettatore è infatti innanzitutto l’atmosfera cupa e malinconica, che caratterizza tanto l’ambientazione principale quanto quelle urbane, mentre il senso di lutto, impotenza e mistero su cui è costruita la narrazione contribuisce all’insieme almeno quanto le curatissime scenografie di Patricio M. Farrell o l’evocativo commento musicale dei The Newton Brothers (entrambi vecchie conoscenze di Flanagan).
UN CAPOLAVORO LETTERARIO, AMATO DA STEPHEN KING
Non esiste horror che si rispetti senza una costruzione consapevole del ritmo, e in tal senso l’esperienza nella editing room del regista e showrunner regala una confezione da manuale. Che si tratti di gestire il climax e – quindi – la tensione, di montare i jump scares, o di alternare il presente col passato, Flanagan fa un lavoro eccellente, portando lo spettatore a desiderare di vedere più di un episodio dopo l’altro. È però la sceneggiatura, che in due episodi è firmata a quattro mani insieme a Meredith Averill (The Good Girl), a farla da padrona. La generosa porzione di tempo dedicata ad approfondire la psicologia e le vicende dei singoli personaggi, infatti, regala un’inaspettata tridimensionalità a quello che pur rimane sostanzialmente un prodotto di genere, permettendo allo spettatore di creare una connessione emotiva sin dal primo episodio. Un merito degli autori televisivi, certo, ma anche e soprattutto del materiale d’origine: l’omonimo libro del 1959 di Shirley Jackson, giudicato da Stephen King come “uno dei più importanti romanzi horror del ventesimo secolo” e già adattato per il grande schermo nel 1963 e nel 1999 (Haunting – Presenze). Se la storia si discosta non poco dalla pagina scritta, lo spirito essenziale del libro è tuttavia presente e fondamentale: un racconto sulla paura che è prima di tutto un racconto sulla fragilità umana.
Pur con tutti i limiti di una serie che si rifà dichiaratamente ai cliché dell’immaginario di genere, The Haunting of Hill House funziona in realtà proprio come adattamento di un libro che è l’archetipo stesso della narrativa sulle case infestate da fantasmi, e quindi trova nella sua paradigmatica classicità i propri punti di forza. Nell’arco dei 10 episodi da circa un’ora c’è – com’è normale – qualche rallentamento e qualche momento meno centrato, ma il livello medio rimane straordinariamente alto e fissa un nuovo punto di riferimento nella serialità horror.