È il 1993, ma potrebbe essere oggi. Ci troviamo in una cittadina del Montana, ma potrebbe essere l’Italia. Avrebbe potuto avere un titolo molto più orecchiabile, e invece quel piccolo prefisso (dis-) è davvero molto importante per La Diseducazione di Cameron Post, film vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival di quest’anno.
Quando Cameron viene sorpresa a baciare una ragazza alla fine del ballo della scuola, la sua famiglia decide di spedirla in un centro religioso per una terapia di conversione. Cameron deve guarire da quella che, per i suoi cari e per la religione, è una seria malattia: l’omosessualità.
Dall’accettazione alla correzione il passo è breve
Da In & Out, uno dei primi blockbuster ad affrontare il tema del coming out, fino ai più recenti Moonlight e Carol (ma anche Tuo Simon e Quando Hai 17 anni, per rimanere in età adolescenziale), il cinema ha indagato la scoperta e la conseguente, non sempre facile, accettazione di una sessualità che altri hanno etichettato come sbagliata, anormale e malata.
La Diseducazione di Cameron Post appartiene a un nuovo filone di pellicole che tracciano un’inedita strada per il cinema, e, contemporaneamente, un passo indietro per l’umanità: si è passati da film sull’accettazione a storie sulla correzione degli individui (sempre in concorso alla Festa del Cinema di Roma troviamo Boy Erased di Joel Edgerton che affronta il medesimo tema). Dimenticate manicomi, violenze ed elettroshock perché Cameron verrà accolta in una grande villa in legno finemente decorata e immersa nella natura più rigogliosa; sarà trattata con gentilezza e rispetto dal personale e le verranno concessi i suoi tempi e spazi per affrontare la sua confusione sessuale.
Sundance e non solo
In un momento cinematografico in cui non si comprende chiaramente se la definizione “film da Sundance” sia da considerarsi più un complimento o un demerito, la regista Desiree Akhavan mantiene una confezione, un’ironia e uno stile visivo tipici dei titoli made in Sundance, riuscendo però a possedere dei tratti personali, soprattutto grazie alla caratterizzazione della sua protagonista.
Cameron è consapevole di essere omossessuale, e non se ne vergogna affatto; la ragazza possiede una personalità ermetica, taciturna, introversa ed estremamente matura. Sa sempre cosa dire e soprattutto cosa non dire per accontentare un mondo a cui spesso preferisce rispondere solo con un drammatico silenzio. Riuscirà il centro religioso God’s Promise a far dubitare Cameron delle sue stesse convinzioni? Chloe Grace Moretz delinea in maniera eccellente le sfumature più intime e nascoste della giovane: sostiene tempi dilatati e primi piani insistenti per un personaggio tutt’altro che semplice da gestire.
La sceneggiatura, scritta a quattro mani dalla regista con Cecilia Frugiuele (tratta dall’omonimo romanzo di Emily M. Danforth), soffre di alcune occasioni mancate nelle caratterizzazione dei personaggi secondari: gli amici di Cameron rimangono sinceri, ironici ma privi di un vero e proprio spessore, e un carattere dal grandissimo potenziale come quello del reverendo, ex gay, Rick (John Gallgher Jr) risulta poco sfruttato. Inoltre, è un vero peccato che nel finale il film decida di non volersi sporcare le mani e pecchi di semplicismo eccessivo e poca voglia di lasciare il segno.
Osservando la figura della gelida villain Disney Dottoressa Lydia (una bravissima Jennifer Ehle) comprendiamo che ci vuole pochissimo per trasformare l’educazione in dottrina, per sostituire un processo psicologico a un maltrattamento, per rendere centinaia di giovani adolescenti una serie di giocattoli rotti che impareranno una sola cosa: odiare se stessi più di ogni altra cosa al mondo.