Con il suo lungometraggio di debutto Medicine for Melancholy Barry Jenkins aveva scelto di esplorare la tematica della cultura nera; tema che poi aveva recuperato in modo tangente nel suo secondo lavoro Moonlight (qui la nostra recensione), intensissima parabola sull’identità di un giovane afroamericano omosessuale che gli era valsa l’Oscar per il Miglior Film nel 2017. Ora il regista americano torna ancora una volta a raccontare le disparità etniche con Se la Strada Potesse Parlare, adattamento per il grande schermo del romanzo If Beale Street Could Talk di James Baldwin (dal 25 ottobre nelle librerie italiane con Fandango Libri).
La pellicola, presentata originariamente al Toronto Film Festival e in anteprima italiana alla 13. Festa del Cinema di Roma, segue le vicende di Tish (la quasi esordiente Kiki Layne) e Fonny (Stephan James, già visto in Race e Selma), una giovane coppia di Harlem che, proprio mentre il rapporto inizia ad evolvere in qualcosa di molto importante, si trova ad affrontare l’imponderabile: Fonny viene ingiustamente incarcerato per uno stupro che non ha commesso e così costretto ad affrontare un’odissea il cui esito è tutt’altro che certo.
UNA STORIA DI ORDINARIA INGIUSTIZIA RAZZIALE
Se nel suo lavoro più noto riusciva a trovare un miracoloso equilibrio nel dare un taglio tutt’altro che retorico a una storia potenzialmente lacrimosa, stavolta Jenkins – che torna a firmare anche la sceneggiatura – vira inspiegabilmente verso un linguaggio cinematografico quasi opposto, e laddove prima riusciva a conseguire una grande intensità emotiva senza alcuna pelosa insistenza, qui sfocia da subito nel melodrammatico; dove prima sceglieva un montaggio radicale e appassionante, ora opta per un passo lentissimo e prevedibile (pur riportando nella editing room Noi McMillon e Nat Sanders); ove in Moonlight riusciva a costruire un naturalismo pur formalmente impeccabile, qui cede a una tavolozza dai cromatismi stucchevoli. Per non parlare poi della direzione degli attori, che rende il confronto con le maiuscole performance di Mahershala Ali e Trevante Rhodes semplicemente impietoso.
UN’ESTETICA FATTA DI CROMATISMI FUORI LUOGO
Il tema di base della storia è tanto forte ed emozionante che basterebbe la più neutra delle mani registiche per portarlo con efficacia sul grande schermo, e invece Jenkins mette in scena un melò stucchevole e soporifero, in cui un formalismo insistito oltre ogni soglia di tolleranza rende artificiosa (e quindi sterile) la messinscena.
Fotografia, scenografia e costumi sono formalmente impeccabili, ma il ricorso a un codice visivo che faccia del colore la propria colonna portante è fin troppo evidente, e se l’intuizione di associare delle tinte particolari ai protagonisti potrebbe essere potenzialmente molto interessante, viene messa in atto con una tale volgare insistenza da risultare a dir poco stucchevole. Tutto ciò che ha a che fare con Tish è giallo e blu (dagli abiti al mobilio al mobilio e alle suppellettili negli interni), finanche la sua famiglia (che ha una predominante verde, quindi risultante dall’unione di giallo e blu); mentre il mondo di Fonny – quello in qualche modo ancora sconosciuto alla compagna – è rosso. È così che ogni scena della pellicola, pur meravigliosamente fotografata da James Laxton, finirà per sbattere in faccia allo spettatore questo espediente tutt’altro che subliminale, privando quindi di ogni naturalismo una storia che invece gioverebbe di uno sguardo più asciutto.
UNA PROTAGONISTA ANACRONISTICA PER UNA PERFORMANCE MONOCORDE
Uno dei problemi di Se la Strada Potesse Parlare è il modo in cui vengono scritti e interpretati i personaggi femminili. Per quanto il materiale d’origine sia fondamentale, Jenkins avrebbe l’opportunità di ottimizzarlo per il mezzo filmico e di attualizzarlo agli standard sempre più elevati che fortunatamente Hollywood ci sta riservando da qualche tempo a questa parte.
Al contrario, molte delle donne che si alternano sullo schermo sono ingabbiate in una scrittura drammaticamente bidimensionale, e la questione è evidente sin dai personaggi secondari. Si pensi ad esempio alla madre di Fonny, che in termini di scrittura è tanto caricaturale nella sua spietatezza da far risultare sobrio un villain Marvel, e che viene portata in scena da Aunjanue Ellis senza la minima sfumatura. Lo stesso dicasi per le sorelle di Fonny, che sembrano le sorellastre di Cenerentola di Disneyana memoria.
Il grosso limite di Jenkins nel ritrarre personaggi femminili diventa impossibile da ignorare quando si arriva alla protagonista, che nel suo essere sostanzialmente debole e inerme, quasi incapace a provvedere a se stessa senza l’aiuto altrui, si rivela noiosamente anacronistica. Con la sua aria da agnello sacrificale – gli occhioni spalancati, la postura chiusa e i grandi sospiri – sembra quasi una principessa Disney d’altri tempi (perché quelle di oggi avrebbero molto più carattere). L’interpretazione monocorde della Layne e la scelta del regista di affidare alle sua voce flebile e flemmatica l’onnipresente voice over finiscono infatti per rappresentare un problema impossibile da ignorare per Se la Strada Potesse Parlare.
IL DRAMMA PER TUTTI, UN PO’ DISNEY E UN PO’ APPLE
Per assurdo che possa sembrare, se non fosse per il ritmo dilatatissimo e il tema adulto, il film di Jenkins potrebbe funzionare bene se visto come una sorta di triste film Disney. In quel caso la stereotipizzazione dei caratteri, qualche scelta simbolica tagliata con l’accetta, le musiche melense, la stilizzazione dell’estetica e la volontà di ‘infiocchettare’ una storia in sé tutt’altro che rosea potrebbero essere giustificabili. Ma considerato che stiamo parlando di tutt’altro genere di lavoro, giustificare la confezione scelta da Jenkins per la sua terza opera diventa decisamente meno facile. Soprattutto se, mentre vorrebbe raccontarci una tematica scottante, sceglie un’estetica che fa continuamente pensare agli spot della Apple.
LA LENTEZZA ESASPERANTE NON AIUTA
Quella di Se la Strada Potesse Parlare è una storia tutto sommato semplice, adattata senza grande profondità e visibilmente amputata con l’avvicinarsi del finale. Nonostante questo, però, i ritmi lentissimi e qualche inspiegabile scelta di montaggio la dilatano decisamente più di quanto sarebbe necessario, lasciando nel metraggio finale – che sulla carta è di 117 minuti, anche se lo spettatore ne percepisce il doppio – almeno una ventina di minuti di troppo.
Siamo certi che non mancheranno gli estimatori del film di Jenkins (il taglio particolarmente melenso di questa love story tormentata incontrerà soprattutto il favore di un certo pubblico femminile), ma rispetto alle aspettative della vigilia, il risultato è a dir poco deludente. Se la Strada Potesse Parlare arriverà nelle nostre sale a San Valentino con Lucky Red, e la scelta della data di debutto italiana dovrebbe dirla lunga.