È probabile che il nome di Drew Goddard non vi dica molto, eppure c’è la concreta possibilità che abbiate già avuto modo di apprezzare il lavoro del regista e sceneggiatore di Los Alamos: è stato candidato agli Oscar per lo script di Sopravvissuto – The Martian di Ridley Scott, ha firmato la sceneggiatura di Cloverfield e World War Z, la regia di Quella Casa nel Bosco – The Cabin in the Woods (di cui è anche autore con Joss Whedon), e per la TV ha scritto una moltitudine di episodi di Lost, Buffy L’Ammazzavampiri, Alias, Angel e è stato in una fase iniziale showrunner di Daredevil per Netflix (show di cui è rimasto produttore esecutivo).
In attesa di vederlo cimentarsi con il genere del cinecomic anche sul grande schermo in X Force (al momento previsto per il 2019), arriva il 25 ottobre nelle nostre sale il suo ultimo lavoro 7 Sconosciuti a El Royale (Bad Times at El Royale), presentato in anteprima italiana in concorso alla 13. Festa del Cinema di Roma.
UN RACCONTO ICONICO IN CUI TUTTO È DOPPIO
È il 27 gennaio del ’69 (almeno a giudicare dal discorso di Nixon che si intravede in un televisore) e ci ritroviamo da subito a El Royale Hotel, un motel collocato perfettamente alla frontiera tra il Nevada e la California. Il confine, segnato da una linea rossa, taglia perfettamente in due la struttura: la metà situata in California ha un arredamento dai colori più caldi, permette il consumo di alcolici ed è più costosa di un dollaro; quella nel Nevada ha una predominante di colori freddi e degli imponenti animali montani impagliati. In questa location incredibilmente iconica, di cui si prende cura in modo esclusivo il giovane Miles Miller (Lewis Pullman), si ritrovano a fare il check-in in contemporanea quattro individui apparentemente comuni: un venditore di aspirapolvere dal carattere risoluto (Jon Hamm, Mad Men), un prete sui generis, Don Daniel Flynn (interpretato da Jeff Bridges, il nome del cui personaggio è un chiaro omaggio a Tron), una hippy (Dakota Johnson) e una donna afroamericana dai modi riservati (Cynthia Erivo). El Royale però, nel suo collocarsi fuori da ogni convenzione, è uno spazio in cui nulla è ciò che sembra, e sia i suddetti individui che la struttura stessa potrebbero avere molti segreti ed essere radicalmente diversi da ciò che sembrano. A complicare l’imprevedibile intrecciarsi di vicende che travolgerà lo spettatore, ci sarà infine l’arrivo del carismatico e prepotente Billy Lee (Chris Hemsworth), un problematico maschio alfa che a tratti ricorda da vicino la figura di Charles Manson.
UNA CONFEZIONE DI GRANDE IMPATTO
È evidente come con 7 Sconosciuti a El Royale Drew Goddard cerchi di mettere in scena un racconto iconico, e come vi riesca con successo. La location dall’identità fortissima (il cui nome riprende quello del casinò una volta di proprietà di Frank Sinatra), il grandissimo lavoro di caratterizzazione dei personaggi, l’accattivante setting d’epoca e la costruzione narrativa a scatole cinesi contribuiscono a una storia di grande impatto immaginifico e incapace di passare inosservata, anche grazie al grande talento degli interpreti che vi recitano.
La confezione di Sette Sconosciuti a El Royale risulta così efficacemente stilizzata anche per la fotografia di Seamus McGarvey (superbo dop di Animali Notturni) e alle scenografie di Martin Whist, ma è la mano registica ormai estremamente sicura di Goddard a convincere senza mezzi termini, insieme al complessissimo lavoro di montaggio di Lisa Lassek (The Avengers, Avengers: Age of Ultron), che fa coesistere 9 linee narrative. Qualche problema in più invece lo troviamo nella sceneggiatura, unico tallone d’Achille del progetto.
LA SCENEGGIATURA È DEBOLE QUANDO SI TRATTA DI FAR CONFLUIRE LE SOTTOTRAME
Il copione scritto da Goddard, inizialmente pitchato con segretezza maniacale (il regista pretendeva che gli acquirenti lo leggessero direttamente sul suo tablet), rappresenta paradossalmente tanto uno dei punti di forza del film quanto uno di quelli di debolezza. Se, come abbiamo già detto, è proprio la tridimensionalità dei personaggi a contribuire in modo decisivo all’esperienza di visione, va aggiunto che il nocciolo della storia – il plot principale in cui convergono i distinti percorsi dei comprimari – è decisamente scarno, tanto da rimanere piuttosto insignificante e dimenticabile.
Il problema principale di 7 Sconosciuti a El Royale è infatti proprio che, mentre tutti i dettagli che contribuiscono a dare carattere alla pellicola si sedimenteranno nella mente dello spettatore, è l’esperienza d’insieme a risultare passeggera. Per quanto sia curata la confezione, la pellicola rimane un prodotto di genere; dal taglio autoriale, ma pur sempre di genere.
A tale riguardo sarà impossibile non pensare in particolare al maestro assoluto del cinema autoriale di genere contemporaneo, Quentin Tarantino, e verrà facile volgere un pensiero tanto a The Hateful Eight quanto a Four Rooms. Goddard però riesce a mantenere un’identità propria, e con la struttura a episodi fa leva proprio su quel talento che l’ha portato ad essere una delle penne più importanti della TV contemporanea.
CINEMA DI GENERE DI ALTISSIMA QUALITÀ
Esiste un certo tipo di cinema che può esser detto d’autore anche se non mira a lanciare grandi messaggi sociali né a metterci davanti a tematiche filosofiche; che cerca senza alcun senso di colpa l’intrattenimento ma che, nel farlo, utilizza il medium cinematografico nel più alto e nobile dei modi. Ecco, Sette Sconosciuti a El Royale è un’opera che appartiene proprio a questa categoria, motivo per cui non possiamo che consigliarvi di dedicargli due ore e ventuno del vostro tempo.