La frontiera è in grado di evocare un’immagine di netta separazione anche se si tratta essenzialmente di un luogo di transito, sfondo passeggero su cui aleggia un senso di continua istantaneità e di attesa; il tempo che scorre lì non è successione ma immobilismo. Sangre Blanca, film diretto dalla regista argentina Barbara Sarasola-Day presentato alla 13. Festa del Cinema di Roma, trasmette una sensazione di claustrofobia, in contrasto con l’aspetto aperto della frontiera: i suoi personaggi sono stretti tra l’impossibilità di tornare indietro e l’incapacità di andare avanti.
UNA GIOVANE DONNA COINVOLTA NEL TRAFFICO DI DROGA AFFRONTA UNA SITUAZIONE PROBLEMATICA
Marina (l’attrice e modella Eva De Dominici) e Manuel (Rakhal Herrero) attraversano il confine tra la Bolivia e l’Argentina: sono corrieri della droga che trasportano cocaina in capsule dentro il proprio corpo. Il lattice degli ovuli però è talmente scadente da sciogliersi nel corpo di Manuel, che muore tra le convulsioni non appena arrivano in albergo. Pressata dall’organizzazione criminale che li ha assoldati, Marina deve trovare il modo di consegnare l’intero carico: quello all’interno del proprio corpo e quello che si trova ancora nel ventre del compagno. Più che dai trafficanti di droga, rispettabilissimi banditi decisamente poco temibili, Marina sembra molto più preoccupata del corpo di Manuel. Spaventata, alza il telefono e chiama Javier (Alejandro Awada), il padre con cui non ha contatti da anni, perché le venga in soccorso.
Il rapporto con il padre, inizialmente inesistente, pone le basi per una serie di ricatti emotivi emotivi e non solo – è incombente il tema della diffamazione. Tutto intorno a Marina parla di squallore: l’hotel dalle pareti giallastre, le strade deserte disseminate di capannoni squadrati, la bettola dove cena. È perduta, sa di esserlo, ma la pellicola non approfondisce né il suo passato né la sua caratterizzazione psicologica, lasciando molto all’intuizione e alle supposizioni.
Si può dire che lo spettatore, nel corso del lungometraggio, abbia lo stesso punto di vista di Javier, perché non conosce nulla della vita della ragazza prima dell’incidente. Più che essere interessata a spiegare, denunciare e contestualizzare il fenomeno del contrabbando di droga, l’opera sembra voler mostrare la vita di una ragazza lasciando al pubblico e non al contesto il compito di colpevolizzare o assolvere la protagonista, presentando solo una successione di fatti. Senza alcun intento di costruire una gerarchia morale interna, la regista ci abbandona quasi a spiare uno spaccato di vita: un approccio insolito per un titolo con forti punti in comune col cinema di genere.