An Impossibly Small Object, lungometraggio presentato nella selezione ufficiale della 13. Festa del Cinema di Roma, è un’opera d’arte che parte dall’arte: una fotografia dall’essenza inconoscibile trasporta immediatamente lo spettatore dentro il film. David Verbeek, regista e protagonista di una pellicola quasi autobiografica, interpreta un fotografo tormentato in viaggio per l’Oriente.
UN FOTOGRAFO CERCA ISPIRAZIONE PER LE STRADE DI TAIPEI
Senza una meta e in cerca di qualcosa in grado di attirare l’obiettivo della sua macchina fotografica, un fotografo vaga nei quartieri popolari di Taipei tra i garage e i sottopassaggi dall’atmosfera industriale, scura e claustrofobica. In mezzo ai tetti e alle squallide colonne, una bambina fa volare un aquilone luminoso. È Xiao Han (Lisa Lu), giovanissima figlia di una coppia di ristoratori che ha appena perso il suo migliore amico Han Han (Chen-Hung Chung) trasferitosi con la famiglia a New York.
AN IMPOSSIBLY SMALL OBJECT È UN FILM CON INTENTI ARTISTICI AMBIZIOSI
La storia viene narrata con inquadrature che raramente mostrano i volti, centrando però il fuoco sui personaggi. La regia, particolarmente curata, riesce a creare un connubio con la fotografia nel definire in modo incisivo il taglio e l’atmosfera della narrazione. Di An Impossibly Small Object è la bellezza dell’immagine ad attrarre, che quasi supera, per importanza e centralità, la trama stessa. David Verbeek evoca un incanto onirico, illuminato da luci fredde: quotidianità e squallore sono ammantati di un fascino misterioso, che incolla lo spettatore allo schermo.
Che cosa vuole raccontare il regista con questa intrusione quasi insensata nella vita di una bambina di Taipei? Il fotografo torna ad Amsterdam e, da qui in poi, i parallelismi iniziano ad emergere. La bambina con l’aquilone luminoso attira il protagonista (e il perché risulta ancora indecifrabile) ma quello che non è razionalmente spiegabile, quasi incomunicabile tramite l’arte proprio perché sfuggente, viene chiarito dalla realtà stessa. L’olandese e la bambina di Taipei si assomigliano e l’attrazione si basa su questa connessione, sconosciuta a tutti tranne che allo spettatore. Questo nesso, che appare incomprensibile se sia stato mediato dalle parole o dall’arte, si manifesta chiaramente nell’immediatezza della realtà.
Fulcro della pellicola è il rapporto tra l’artista, il suo soggetto e l’opera finita, una relazione che deve trovare un giusto equilibrio tra il polo freddo della tecnica (che il regista ripudia tramite le parole dei suoi personaggi) e l’estremità calda della passione, inconoscibile perché priva di forma. Il senso è nascosto e solo a volte si esplica tramite la parola, che fornisce una iniziale chiave di lettura per poi lasciare all’immagine il compito di descrivere il quadro generale.