L’opera di Kim Ki-duk, presentata nel 2016 al Toronto Film Festival, distribuita nelle nostre sale nell’aprile del 2018 e ora finalmente in home video su distribuzione CG Entertainment e Tucker Film, conferma ancora una volta l’elevata qualità del cinema coreano, capace di stupire le platee con prodotti d’autore che spaziano dal cinema di genere alla denuncia sociale.
È proprio nella categoria dei film di denuncia che rientra Il Prigioniero Coreano, pellicola che sorprende nella sua capacità di sollevare una critica tanto verso il regime nordcoreano quanto (e soprattutto) del governo democratico a sud del 38° parallelo, la cui società non viene certo dipinta come felice alternativa al regime di Pyongyang.
La pellicola narra la storia di Nam Chul-Woo (Ryo Seung-bum), pescatore nordcoreano che a causa di un guasto al motore della sua barca si ritrova in balia della corrente del fiume che passa fra le due Coree. Giunto suo malgrado in Corea del Sud, verrà subito arrestato dai militari: da lì in poi il malcapitato verrà interrogato e torturato perché ritenuto una spia inviata da Pyongyang, e dovrà affrontare avversità di ogni sorta nella speranza di poter un giorno tornare in patria dalla moglie e dalla figlia.
LA VICENDA DI UN PESCATORE PER UNA FORTE DENUNCIA POLITICA
Il film di Kim Ki-duk (degno rappresentante del cinema orientale contemporaneo nonché vincitore del Leone d’Oro nel 2012) torna a dirigere offrendo agli amanti della settima arte asiatica un’opera a tratti anticonvenzionale – considerando come è stata trattata la materia politica – dove ad essere criticato non è soltanto il sistema dittatoriale nordcoreano ma anche il “regime democratico e capitalista” di Seul nel quale manca, forse in maniera più velata, una vera libertà decisionale, quasi come se le dittature nella penisola coreana fossero due.
L’autore rischia perfino di infondere agli occhi dello spettatore una visione del regime isolato le cui ingiustizie non sono poi troppo differenti da quelle di un altro paese ‘libero’. La necessità di mistificare la realtà e di proiettare al di fuori dei confini un’immagine artificiale e propagandistica diventa così un comune denominatore tra le due Coree, mentre il sistema capitalista finisce quasi per prendere le sembianze di un ‘diavolo tentatore’ e la volontà di manipolare lo sventurato protagonista arriva a metterne in dubbio le ambizioni democratiche.
La questione politica rimane ovviamente il focus principale, ma di certo non è l’unico tema della pellicola, che si concentra anche sull’amore familiare: Nam Chul Woo, come Ulisse, è costretto fin dall’inizio a superare molte prove sia in patria che in terra straniera, ma la sua integrità morale e appunto il desiderio di rivedere moglie e figlia diventeranno il principale appiglio cui ricorrere per provare ad affrontare una vicenda più grande di lui.
UNO SGUARDO SORPRENDENTE SUL CONFLITTO DELLE DUE COREE
Il Prigioniero Coreano segna il ritorno di un grande autore con un lavoro magistralmente eseguito nella sua schematica semplicità, girato principalmente in interni e ben interpretato. I parallelismi su cui si regge la sceneggiatura, firmata dallo stesso Kim Ki-duk, funzionano a dovere e permettono di far comprendere facilmente il messaggio politico e sociale. Pur non presentandosi come il capolavoro del cineasta coreano il film si pone come opera imperdibile per i suoi estimatori – e non solo –, capace di offrire una visione lontana dagli stereotipi della particolare situazione di due paesi in continuo stato di guerra non belligerante; una situazione che coinvolge le persone ancor prima dei governi.