Il primo lungometraggio del regista norvegese Mats Grorud, The Tower, racconta la storia di una famiglia palestinese che vive all’interno di un campo profughi in Libano, uno dei tantissimi campi nati dopo la cosiddetta Al-Nakba del 1948 quando, dopo la fondazione dello Stato d’Israele, più della metà del popolo palestinese fu costretta a lasciare le proprie case in nome di quella che è stata una vera e propria pulizia etnica. Presentata nella sezione Alice nella Città della 13. Festa del Cinema di Roma, la pellicola affronta una delle pagine storiche più drammatiche e contraddittorie che ancora oggi condiziona il Medio Oriente.
L’ESODO PALESTINESE VISTO ATTRAVERSO GLI OCCHI DI UNA BAMBINA
Wardi è la protagonista di The Tower, una bambina di undici anni molto legata al nonno Sidi. Quando quest’ultimo inizia a sentire il peso degli anni e ad ammalarsi, regala alla piccola una chiave da portare sempre al collo come testimonianza della storia della loro famiglia e come simbolo di un futuro ritorno a casa. È a questo punto che Wardi inizia a porsi le prime domande sulle proprie origini, ripercorrendo così le vicende di ben tre generazioni prima di poter guardare ad un felice avvenire.
UN FILM D’ANIMAZIONE INTENSO MA MAI PATETICO O RETORICO
Mats Grorud decide di raccontare il rapporto tra diverse generazioni in un contesto ben preciso scegliendo di non concentrarsi affatto sulle differenze ma sottolineandone semmai i punti in comune, tramite il simbolico passaggio di testimone che avviene quando Sidi cede la chiave a Wardi. È chiaro fin da subito che l’eredità da dover lasciare non è un’eredità materiale come la chiave di una casa strappata ai propri abitanti ma è la Memoria in quanto identità di un intero popolo che sta rischiando di scomparire nel nulla come se non fosse mai esistito.
Tuttavia, lontano dal tono drammatico e sentimentalista, Grorud riesce a raccontare la vita nel campo profughi con estrema dignità attraverso uno sguardo naturale e affettuoso. Se il contesto e l’ambientazione è quello dello stato di guerra, l’occhio dello spettatore è filtrato da quello di Wirdi che però non conosce altra vita al di fuori di quella nel campo profughi: le sue giornate sono anche fatte di pagelle scolastiche, amici, giochi.
Inoltre, l’utilizzo dell’animazione in stop-motion consente alla pellicola di essere vista sotto una luce diversa rispetto ad un classico film drammatico, permettendo di essere fruibile ad un pubblico decisamente più ampio mentre l’utilizzo della classica animazione 2D nelle scene in flashback aggiunge ritmo e dinamicità alla sceneggiatura.
Sebbene The Tower si tenga ben lontano da uno stile politically correct, non si concede al racconto storico come puro mezzo di denuncia e di propaganda. L’importanza dei rapporti umani ma soprattutto l’importanza di restare umani sono i grandi temi che si legano a quelli dell’identità e della memoria. L’impegno sociale è evidente, tuttavia le caratterizzazioni dei personaggi non sono costruite unicamente in base alla loro condizione di rifugiati.
Così come le diverse generazioni della famiglia di Wardi hanno diligentemente costruito tassello dopo tassello il palazzo (la torre che dà il titolo al film) in cui la protagonista vive, la sceneggiatura scritta dallo stesso Mats Grorud in collaborazione con Trygve Allister Diesen e Ståle Stein Berg realizza, utilizzando anche immagini di repertorio, il microcosmo di una famiglia costrette all’esodo. A partire dalle prime operazioni militari del 1948 (che costrinsero Sidi a fuggire insieme al padre), passando per la repressione dei movimenti rivoluzionari negli anni Ottanta, il lungometraggio non perde mai di vista il suo obiettivo: raccontare il rapporto tra Wardi e Sidi, a testimonianza di un’umanità e una fratellanza mai perduta nonostante l’esodo.