Dopo quell’Indivisibili che tanti riconoscimenti – forse qualcuno di troppo – aveva ricevuto tra le Giornate degli Autori di Venezia e i David, le aspettative per il nuovo lavoro di Edoardo de Angelis erano particolarmente alte. Aspettative che si erano trasformate in curiosità quando, con un’uscita decisamente irrituale per il galateo dei festival, il direttore della Mostra del Cinema di Venezia Alberto Barbera aveva spiegato pubblicamente di non aver voluto quella nuova pellicola in concorso perché «De Angelis ha un grande talento, ma non è ancora riuscito a trovare una forma compiuta per tradurlo in un film completamente risolto». Dopo che i produttori avevano così ripiegato sulla sezione Contemporary World Cinema del Toronto Film Festival; Antonio Monda, alla guida della Festa del Cinema di Roma, quel titolo non se l’era lasciato scappare, e il risultato è stato che Il Vizio della Speranza ha vinto nella Capitale il Premio del Pubblico BNL – sorprendendo un po’ tutti, dato che Green Book era il grande favorito. Da lì a poco sono arrivati anche il premio per la miglior regia e quello per la migliore attrice al Tokyo Film Festival.
Al netto della vicenda festivaliera, che appassiona più gli addetti ai lavori che lo spettatore medio, rimane da capire quale sarà l’impatto con il pubblico dei cinema – quello che conta, che paga il biglietto e può decretare o meno il successo di un film – ora che il 22 novembre Il Vizio della Speranza si appresta ad arrivare nelle nostre sale su distribuzione Medusa. Col senno di poi noi possiamo anticiparvi che le parole di Barbera sull’incompiutezza del film erano sacrosante, e che però se è blasfemo anche solo l’accostamento con il superlativo Suspiria di Guadagnino, il film di De Angelis rimane di gran lunga superiore al deludente Capri Revolution di Martone, che invece si era inspiegabilmente guadagnato il concorso principale in laguna.
IL VIZIO DELLA SPERANZA IN UN LIMBO FUORI DAL TEMPO
Per De Angelis, che firma la sceneggiatura a quattro mani con Umberto Contarello (braccio destro di Paolo Sorrentino), la fiducia nel futuro è una morbosa attitudine della quale, anche calati nelle condizioni più sfavorevoli, non riusciamo a liberarci. Per riflettere su di essa decide quindi di confezionare una sofisticata fiaba nera in cui tutto è estremo, stilizzato, assoluto.
Siamo in un Casertano avvolto in una luce perennemente livida e fredda, slegato dal tempo e dalla realtà, astratto e diruto. Maria (la bravissima Pina Turco, vista nella finzione come moglie di Ciro in Gomorra – La Serie e nella realtà moglie di De Angelis) vive in questo limbo di povertà e spazzatura, solitudine e aridità insieme ad altri disperati con i quali non sembra avere nessun legame significativo. Giovane eppure già sconfitta dalla vita, con la sola compagnia di un fedele pit bull e una madre depressa, passa la vita a traghettare sul fiume Volturno donne incinte – spesso immigrate – che vanno a vendere il nascituro a una ‘madama’ che ha i connotati stilizzati di un’antagonista da fiaba (partenopea). Un giorno però Maria scopre di aspettare un figlio, e così si affaccia nel suo cuore la speranza di fare qualcosa di buono, di poter mettere al mondo un bambino che non debba mai conoscere quella palude esistenziale.
LA SPERANZA È COME LA GINESTRA, MA LA METAFORA MARIANA È STUCCHEVOLE
Ne Il Vizio della Speranza le stagioni e la luce del giorno seguono regole proprie, non vi è ombra dello Stato né alcun collegamento apparente con il mondo fuori da Castel Volturno, e la società assume connotati matriarcali, escludendo quasi completamente la variabile maschile dall’equazione.
È evidente la volontà di De Angelis di allontanarsi dalla realtà per una parabola quasi simbolista, che come accade nelle fiabe trascende il reale – pur senza alcuna metafisica – per proporre una morale, un insegnamento per immagini. La speranza del titolo è come la ginestra di leopardiana memoria, che fiorisce nella terra resa brulla dal fuoco (o dai fuochi), ma nel suo proporci una metafora quasi mariana su una Madonna alle prese con uno Stige tutto campano, il regista eccede nelle intenzioni allegoriche e finisce risultare compiaciuto nel suo imporre allo spettatore la propria visione.
La scelta di privare – o quasi – i personaggi di un passato e di un contesto permette sì di collocare il racconto su un piano altro rispetto al verosimile, ma ha lo sgradevole effetto collaterale di rendere meccanica ogni scelta, e di privare quindi i protagonisti di motivazioni solide. Tutto accade più come conseguenza di una mano che muove la vicenda dall’altro – come dimostrato dalla stucchevole scena dopo i titoli di coda – ma questa scelta narrativa va a detrimento dell’esperienza di visione.
UN’ESPERIENZA ESTETICA DI RARA POTENZA, GRAZIE A TRE GRANDI TALENTI
Il Vizio della Speranza è uno dei film esteticamente più potenti degli ultimi anni. Sin dalla sua ispiratissima immagine di apertura (una delle opening shots migliori che il cinema italiano degli ultimi decenni ricordi), il film conquista da subito per la potenza dell’allestimento visivo, per il quale i meriti di De Angelis vanno divisi con la fotografia di Ferran Paredes (la cui tecnica fa qui un impressionante balzo in avanti), le scenografie di Carmine Guarino (Indivisibili e Gomorra – La Serie) e i costumi di Massimo Cantini Parrini (Il Racconto dei Racconti, Riccardo Va all’Inferno); tre talenti che qui fanno un lavoro tanto eccellente da non sfigurare con quello dei loro più celebrati colleghi hollywoodiani.
Quando però a una forma tanto impeccabile soggiace uno script in cui la storia spesso procede forzosamente e nel quale gli ammiccamenti compiaciuti finiscono per prendere il posto di una più tradizionale costruzione dei personaggi, è evidente che ci si scontra in un’incompiutezza che è quella cui probabilmente si riferiva Barbera. È così che l’artificiosità del film ci allontana progressivamente dalla storia, e mentre un codice cromatico smaccato ripropone con troppa insistenza luci rosse che interpungono la luce crepuscolare, si passa ai pigrissimi stereotipi nella proposizione di una comunità di immigrate africane, mentre l’inserimento di elementi come un serpente, il Natale o una candida veste bianca servono a calcare troppo la mano nella direzione dell’allegorismo.
UN CINEMA AMBIZIOSO MA COMPIACIUTO
Scena dopo scena, simbolo dopo simbolo, quello che avrebbe potuto essere un potente ritratto del dono della maternità sospeso tra disperazione e speranza si arena nel terreno dell’esercizio di stile tanto manieristico da risultare a tratti addirittura fastidioso; non supportato da un copione sempre all’altezza. Cionnonostante, l’ambizione de Il Vizio della Speranza è evidente a tutti, e l’opera rappresenta per ora la migliore nella pur lodevole filmografia di De Angelis. Qualche somiglianza di troppo con il setting di Indivisibili non pregiudica in alcun modo il risultato, ma se De Angelis vorrà fare il salto di qualità definitivo dovrà trovare una propria poetica e un proprio linguaggio distinguibili. Mozzarella Stories, Perez., Indivisibili e Il Vizio della Speranza, nonostante un comune denominatore, sembrano tappe di un percorso di ricerca ancora in divenire. Se quest’ultimo titolo rappresenta la direzione in cui ha intenzione di andare il regista sul grande schermo, non possiamo che attendere con grande trepidazione la sua prossima fatica. Per ora è al lavoro sulla miniserie TV Radical Eye, in cui dirigerà Monica Bellucci nei panni della fotografa femminista Tina Modotti.