Sull’incommensurabile talento di Paul Dano (Il Petroliere, Youth, Swiss Army Man) come attore non vi è dubbio alcuno, mentre le sue doti da sceneggiatore e regista erano ancora tutte da giudicare. È Wildlife, il suo primo film dietro la macchina da presa, a permetterci di scoprire un nuovo aspetto del suo percorso artistico, e dopo esser passato dal Sundance, da Cannes e da Toronto la pellicola di Dano arriva anche all’anteprima italiana nel contesto del 36. Torino Film Festival.
JAKE GYLLENHAAL, CAREY MULLIGAN E UNA FAMIGLIA CHE CADE A PEZZI
Wildlife è l’adattamento del romanzo Incendi di Richard Ford, e a firmare lo script a quattro mani con Paul Dano c’è Zoe Kazan (nipote di Elia, anche lei nota prevalentemente come attrice e vista recentemente in La Ballata di Buster Scruggs). La storia è ambientata nel Montana degli anni ’60 e ci accompagna in un quartiere residenziale nel quale la famiglia perfetta dei protagonisti sarà destinata a sfaldarsi nel più scomposto dei modi. Quando un amorevole padre di famiglia (Jake Gyllenhaal) verrà licenziato e si assenterà per un periodo da casa in cerca di se stesso, la moglie (Carey Mulligan) perderà progressivamente ogni riferimento e si trasformerà nella peggior madre possibile, a tutto danno del figlio quattordicenne (Ed Oxenbould), che a causa dei traumi sarà costretto a maturare rapidamente.
PAUL DANO REGISTA: IL MOVIMENTO DI MACCHINA, QUESTO SCONOSCIUTO
Se nel cast brillano i nomi di Gyllenhaal (non troppo presente sullo schermo) e di una straordinaria Mulligan (mai così detestabile) è in realtà Oxenbould a farsi carico di buona parte del metraggio, e con una gamma espressiva non sempre troppo convincente.
La lente d’ingrandimento finisce inevitabilmente sulla regia di Dano, e sorprende l’approccio particolarmente severo – a tratti letargico – della sua messinscena. Se volessimo indulgere alla semplificazione, potremmo dire che la direzione di Dano sembra avere un approccio da noul val românesc ma con una curatissima estetica à la Paul Thomas Anderson (in modo non del tutto dissimile dal The Mountain di Alverson), un raro mix tanto estremo nella sua stilizzazione da sembrare deciso a tavolino ancor prima della stesura del soggetto.
Le immagini di Wildlife colpiscono sin dal formato, un inusuale 16:9 che ormai viene prediletto principalmente per i lavori direct to streaming (e sempre più raramente), anche se a condizionare più di ogni altro aspetto la confezione della pellicola è proprio la scelta intransigente di affidare l’interezza del film alla camera fissa – con pochissime eccezioni, che potremmo enumerare una per una.
Mentre uno script particolarmente verboso fa affastellare dialoghi su dialoghi, l’occhio di Dano rimane sempre immobile sullo stativo, senza nessun commento musicale a ingentilire o rafforzarne il lavoro. La conseguenza di tale scelta è che la quasi interezza del ritmo pesa sulle spalle dei montatori Louise Ford (The Witch, Man In The Dark) e Matthew Hannam (Enemy, Swiss Army Man), ma per quanto questi cerchino di alternare diverse cadenze nel corso dell’ora e quarantacinque del film, dopo i primi 15 minuti sembrerà esser già passata un’eternità.
DANO ALLA RICERCA DI UN’IDENTITÀ
A dare carattere a Wildlife non è tanto la mano di Dano, che anzi rimane tanto riluttante a ogni intervento da risultare quasi pigra, quanto la fotografia di Diego García, presto cinematographer di tre episodi della nuova serie di Refn Too Old To Die Young: con il suo marcato split toning (le basse luci virate al blu e le alte al giallo), il ridotto contrasto e la paletta lattiginosa richiama prepotentemente il gusto del Paul Thomas Anderson de Il Filo Nascosto e The Master, mentre una composizione e una scelta dell’inquadratura sempre formalmente impeccabile (tanto da sfociare nel formalismo) rappresenta il principale valore aggiunto.
Sono proprio le influenze di Anderson a risultare palesi soprattutto nelle rarissime occasioni in cui Paulo Dano decide di affidarsi a dei movimenti di macchina: che si tratti di una tracking shot fissa su un’automobile, di una carrellata laterale che segue una corsa sfrenata o dell’espediente di portare su schermo il punto di vista di una macchina fotografica, si potrebbero citare uno per uno i momenti del cinema di PTA che il regista ‘prende in prestito’. C’è però anche un altro movimento di macchina che scandisce quattro momenti fondamentali del film, ed è quello che col tempo ha preso il nome di Spielberg face: una lenta carrellata verso il volto sconvolto di un personaggio per raccontare tramite le sue emozioni ciò che sta vedendo. Rare eccezioni però, in un film in cui la camera è sempre e costantemente immobile.
Tutto ciò rende Wildlife un dramma con risvolti da coming of age molto ben confezionato, ma che risente di una certa mancanza di carattere e che soprattutto soffre di tempi che faranno cadere in un sonno profondo il pubblico generalista. Se invece siete amanti del grande cinema rumeno contemporaneo, non vi lascerete certo spaventare da un linguaggio tanto severo. Per ora Dano però continuiamo a preferirlo come attore.