Bernardo Bertolucci andava molto fiero di un saggio di Godard (scritto negli anni ’60 e pubblicato nei Cahiers) nel quale le opere del regista emiliano venivano definite come “Cinema di poesia”. Il figlio del grande Attilio, nato a Parma nel 1941, si innamorò per prima cosa della scrittura in versi, ovvero del mestiere del padre. Bernardo pubblicò persino una raccolta di poesie, nel ’62, intitolata In cerca del mistero. La cosa di cui il regista di Prima della Rivoluzione andava però più fiero in assoluto erano le sue amicizie, equamente sparse per il mondo: dai registi della Nouvelle Vague in Francia fino al Brasile di Glauba Rocha (di cui Bertolucci ammirava la capacità con cui faceva muovere gli attori), passando per Marlon Brando, poi per Jack Nicholson e Trintignant, Moravia e qualunque altro intellettuale o personaggio dello spettacolo al quale potete pensare.
Bernardo Bertolucci non si è mai fermato. La sua vita è stata un viaggio partito da Parma (nel Marzo del 1941) e conclusosi a Roma il 25 Novembre 2018; a 77 anni si è spento un uomo che da un decennio combatteva contro una malattia che lo aveva costretto in sedia e rotelle e che, ciononostante, era riuscito a girare un grande film come Io e Te. Sarebbe difficile, forse anche superfluo, rinchiudere in poche righe, tramite un compendio, i cinquanta anni di carriera di Bernardo Bertolucci. Abbiamo deciso di concentrarci sull’inizio, così peculiare, della carriera del regista italiano. Tutto partì, stando a quanto racconta Bertolucci nelle interviste, con un incontro quasi casuale con uno scrittore italiano.
I REGALI DI PIER PAOLO PASOLINI
Attilio Bertolucci fu indubbiamente fondamentale per la carriera di Pier Paolo Pasolini. I due erano entrambi poeti, entrambi emiliani e di sinistra. Il primo introdusse il secondo, all’inizio degli anni ’50, nella casa editrice Garzanti e pubblicò su una rivista da lui diretta, chiamata Paragone, un estratto di Ferrobedò – titolo provvisorio di un romanzo che si sarebbe poi chiamato Ragazzi di vita. Pasolini e Attilio divennero sodali amici e, in qualche modo, colleghi di lavoro: per anni si scambiarono lettere, si giudicarono a vicenda gli scritti e diedero vita ad un ‘ufficioso’ circolo culturale che vedeva esponenti come Bassani e Caproni.
Dopo che si trasferirono nello stesso palazzo, Pier Paolo Pasolini divenne amico anche del giovane Bernardo Bertolucci, poeta in divenire e grandissimo ammiratore dell’intellettuale bolognese, il quale gli dedicò una lunghissimo componimento in versi, A Un Ragazzo, contenuto nella raccolta La religione del mio tempo (1961). Una splendida poesia intima e personale, comprensibile in pieno soltanto dal suo autore e dall’uomo che la ispirò
Curiosamente, subito dopo l’uscita di questa raccolta, le carriere cinematografiche di Pasolini e di Bertolucci cominciano, insieme e sotto il segno di un incontro casuale. Pasolini e il suo “allievo” si incontrarono nell’androne delle scale e il primo chiese al secondo di fare il suo aiuto regista per Accattone, esordio alla regia dell’autore di Petrolio. Bertolucci rispose: “No, non lo so fare. Non ho mai fatto un film”. Pasolini lo rassicurò “Nemmeno io”.
IL CINEMA DI POESIA
Dopo l’esperienza come aiuto regista, Bernardo Bertolucci esordì alla regia con La Commare Secca, una sceneggiatura da lui scritta su un soggetto che gli fu regalato da Pasolini. Bertolucci si presentò sul set esattamente come fece Orson Welles in Quarto Potere: da assoluto novizio.
Ed è proprio per questo che il cinema di Bertolucci va classificato come “di poesia”. Appena ventenne, egli si inventò regista seguendo l’istinto, il genio e il talento che non poteva in alcun modo aver allenato. In tanti si sarebbero aspettati un film che ricalcava lo stile pasoliniano, fatto dunque di camera ferma e costruzione geometrica dell’immagine, più simile alla pittura medioevale (quella che Longhi aveva insegnato a Pasolini) piuttosto che al dinamismo della macchina da presa.
Bertolucci, invece, con grande coraggio, fece esattamente l’opposto: egli disse che tanto il cinema del suo maestro era fatto di camera fissa quanto il suo sarebbe stato costruito sui movimenti di macchina. Già dalla Commare, ma soprattutto da Prima della rivoluzione, l’opera di Bertolucci cominciò ad assomigliare di più agli autori francesi che a quelli italiani. Quello splendido modo di muovere la telecamera diventò uno dei leitmotiv del cinema del regista de Il conformista. Pittura, teatro, poesia e letteratura andarono a comporre l’eclettico quanto inimitabile registro stilistico di uno dei più grandi esteti del nostro cinema.
BERTOLUCCI E IL NOVECENTO
Bertolucci a suo modo ha segnato il Novecento, e proprio il suo Novecento è un’opera magna, di più di cinque ore di durata e con decine di costumi e comparse, al centro della quale stanno due attori, Robert De Niro e Gerard Depardieu, i quali corpi saranno fra i più ricordati del secolo scorso. Presentato a Cannes nel 1976, Novecento rimane oggi come l’opera più ‘grande’ e ambiziosa di Bernardo Bertolucci, anche più de L’ultimo imperatore. Un affresco della prima parte di un secolo di cambiamenti e contraddizioni, di quei mutamenti sociali che hanno dato forma all’Italia contemporanea.
Bertolucci ha segnato ed è stato segnato dal ‘900. Attraverso il suo Cinema ha sempre dato una grande importanza a fenomeni squisitamente novecenteschi come la psicanalisi (espressa in Ultimo Tango a Parigi o con l’incesto de La Luna), la politica (il ’68 di The Dreamers , la vera storia de L’ultimo imperatore o Il conformista) e la poesia, intesa come componimento di versi, come racconto di una storia che non necessitava della prosa e dell’ordine delle righe per essere raccontata. Tutto il cinema di Bertolucci è un ricercato assieme di rime, di rimandi cinefili e letterari, il racconto del contemporaneo che, secondo lui, passava specialmente dal racconto del sesso.
Bertolucci se ne è andato come genio; come poeta vanitoso che amava molto parlare di se stesso e dei suoi film, anche a distanza di anni. Diceva di aver pronto qualcosa, un’idea che dopo cinque anni sentiva di poter trasformare in film. Voleva raccontare una storia d’amore, l’ultima. “Il Cinema lo chiamerei semplicemente vita. Non credo di aver mai avuto una vita al di fuori del cinema; e in qualche modo è stato, lo riconosco, una limitazione.”