Dopo una gestazione quasi interminabile (ne abbiamo parlato qui) arriva finalmente al cinema Bohemian Rhapsody, bio-pic sulla celeberrima band art-rock britannica dei Queen, nelle nostre sale dal 29 novembre su distribuzione 20th Century Fox.
QUINDICI ANNI DI MUSICA DEI QUEEN IN 134 MINUTI
Il film, che pur seguendo le vicende di tutti i membri della band si focalizza inevitabilmente sull’istrionico frontman Freddie Mercury (cantante, pianista e compositore di impareggiabile talento), copre l’arco temporale che intercorre tra la formazione del gruppo e la storica esibizione al Live Aid del 1985. Assistiamo quindi alla nascita dei Queen da quel che rimaneva degli Smile, al brivido delle prime esibizioni dal vivo, alla registrazione in studio dell’indimenticabile rapsodia di A Night at the Opera che dà il titolo al film, passando poi per gli screzi con un produttore, il crescendo di fama degli anni successivi, il fidanzamento di Mercury con Mary Austin e la conseguente scoperta dell’omosessualità. È quindi il turno dei party degli anni ’80, dell’emergere degli individualismi, dei primi episodi solistici e poi del ricompattamento davanti alla malattia di Mercury, alla vigilia del grande concerto di beneficenza organizzato da Bob Geldof e Midge Ure.
A dare il volto a Freddie Mercury quel Rami Malek che tanto straordinario si è dimostrato nell’amatissima serie Mr. Robot, mentre per il bassista John Deacon troviamo Joseph Mazzello (irriconoscibile dai tempi nei quali interpretava il bambino del primo Jurassic Park) e per il batterista Roger Taylor Ben Hardy (Arcangelo in X-Men: Apocalypse). Menzione a parte la merita Gwilym Lee (collegato al progetto dai tempi di The Tourist), che porta in scena un Brian May più vero del vero, mentre meritano di essere citati anche Lucy Boynton (Sing Street) nei panni della compagna di Freddie e Mike Myers (Austin Powers) in quelli dell’inesistente produttore Ray Foster – ispirato al manager dei primi tre dischi Norman Sheffield, cui i Queen dedicarono la canzone-invettiva Death On Two Legs, e in minima parte al dirigente EMI Roy Featherstone.
DELLE RICOSTRUZIONI MANIACALI FANNO RIVIVERE ‘LA MAGIA’
Nel momento in cui si viene messi davanti a oltre due ore che ripercorrono buona parte delle hit dei Queen è pressoché impossibile non lasciarsi trasportare da queste, e così il timbro e l’estensione della voce di Mercury, i fraseggi della Red Special del chitarrista Brian May e il groove di Deacon e Taylor non potranno non incantare lo spettatore con “una specie di magia”.
A rendere ancora più coinvolgenti le ricostruzioni delle performance live ci sono non solo il meticoloso lavoro di riproduzione delle movenze dei quattro rocker, ma anche e soprattutto l’inestimabile apporto dato dal direttore della fotografia Newton Thomas Sigel (Drive), dal costumista Julian Day (Inferno) e dallo scenografo Aaron Haye (al suo debutto in questo ruolo dopo una prolifica carriera come modellista 3D e virtual set designer). È infatti principalmente merito di questi tre talenti se quei palchi e quei set impressi a fuoco nella mente di ogni fan della band rivivono in Bohemian Rhapsody in ogni minimo dettaglio, con una devozione filologica che è un vero atto d’amore alla storia della band.
LA VOLONTÀ DI RISCRIVERE LA STORIA DEI QUEEN E L’INFERNO PRODUTTIVO CHE NE È DERIVATO
La storia della band. È proprio questo uno dei punti sui quali si vorrebbe focalizzare il film, ma anche uno di quelli sui quali si appresta a deludere maggiormente chi davvero conosce le vicende di Mercury e dei suoi sodali. Sin dall’inizio della sua interminabile produzione di otto anni, Bohemian Rhapsody ha avuto ogni tipo di problema. A causa principalmente di divergenze con la produzione si sono infatti alternati un numero impressionante di attori, registi e sceneggiatori (ve ne parliamo in questo approfondimento).
Il primo nome il cui allontanamento dal progetto fece scalpore fu quello di Sacha Baron Cohen, che originariamente doveva interpretare Mercury. A lui però seguirono molti alti, e il motivo era più o meno lo stesso: l’irremovibile volontà dei Queen di fare un film – dal loro punto di vista – in grado di far conoscere maggiormente la band alle nuove generazioni, nel quale la morte di Mercury arrivasse a metà pellicola e che poi si concentrasse sull’impatto di questa sulle vite degli altri membri del gruppo. Un film che ovviamente quasi nessuno avrebbe voluto vedere – e a quanto pare girare.
Ci sono volute un’infinità di dinieghi e di riscritture per convincere Brian May e Roger Taylor, veri dii ex machina dell’operazione, a cambiare approccio verso la storia, ma ciò non ha impedito loro di pretendere una profonda riscrittura degli eventi. Un vero e proprio stravolgimento, a dire il vero, che se in minima parte è giustificato dalla necessità tecnica di far filare il ritmo e le dinamiche del copione, dall’altra sembra quasi avere l’intento manipolatorio di ‘santificare’ le vite di quelle che comunque erano pur sempre quattro rock star (trovate il confronto tra realtà e finzione in questo articolo).
RAMI MALEK: TANTISSIMO TALENTO NON BASTA
Non c’è veramente alcun dubbio: Rami Malek si è dato anima e corpo al progetto Bohemian Rhapsody, e tanto la sua performance attoriale quanto l’aspetto più ‘filologico’ di ricostruzione delle movenze del protagonista denotano il massimo impegno da parte sua. Le componenti su cui purtroppo Malek non può avere il controllo sono però quelle che più penalizzano il risultato finale, e hanno a che fare tanto con la presenza scenica quanto con la parte vocale dell’interpretazione.
Che non si potesse chiedere a Malek di cantare come Freddie Mercury è lapalissiano, e per questo la produzione ha fatto sì che la voce dell’attore rimanesse solo nelle scene di parlato, mentre per ogni parte cantata la voce o è quella originale del cantante dei Queen o quella del suo imitatore Marc Martel, celebre per i video su YouTube. Ciò non esclude però quella che è una caratteristica di Malek, e cioè la parlata blesa. Chiunque abbia mai sentito la voce originale dell’interprete sa bene quanto siano evidente i suoi difetti di pronuncia – in particolare la S sifula – e tale caratteristica, incredibilmente amplificata dalla grande dentiera imposta dal make-up, rende la parlata del Freddie di Bohemian Rhapsody in quasi ridicola in lingua originale. Freddie aveva un leggerissimo fischio sulla S, ma niente di lontanamente paragonabile, e ovviamente quando si porta in scena una delle più belle voci della storia, diventa un problema non da poco.
Se i sigmatismi di Malek possono diventare irrilevanti nella visione in italiano (nella quale il doppiaggio contribuisce non poco a risolvere uno dei grossi punti deboli del film), lo stesso non si può dire per il carisma inarrivabile di Freddie Mercury. A detta di chiunque l’abbia conosciuto, quando Mercury entrava in una stanza aveva una tale presenza nello spazio da calamitare l’attenzione di chiunque. Un magnetismo naturale che è ben evidente anche nei live o nei video musicali, e che non può essere facilmente replicabile con una somma di mosse e tic. Rami Malek purtroppo quello stesso carisma non lo ha, ma se a ciò aggiungiamo che la grande dentiera ne modifica tanto radicalmente il profilo da renderlo addirittura caricaturale (o quantomeno innaturale) in certe inquadrature, i fattori che distraggono dalla performance iniziano ad essere troppi. Non tali da pregiudicare il risultato, dato che la somiglianza in alcuni momenti è mozzafiato, ma abbastanza rilevanti da distrarre lo spettatore.
In conclusione Bohemian Rhapsody è un film realizzato con un’encomiabile cura maniacale e capace di regalare due ore indimenticabili grazie principalmente alle note dei Queen. Tra la colpevole falsificazione della storia vera del gruppo e un Freddie Mercury che parla con la zeppola, però, finisce per essere una mezza delusione. Pur sempre emozionante e galvanizzante come le note degli indimenticabili inni rock che ripropone per tutta la sua durata e che vi porteranno a muovervi continuamente sulla sedia a ritmo di musica, ma una delusione.