Qualcuno forse ricorderà Markus Schleinze quando nel 2011 fece il suo esordio alla regia nel concorso di Cannes con il suo provocatorio Michael, film che raccontava cinque mesi di vita di un pedofilo. Dopotutto il regista austriaco è stato uno dei collaboratori di Micheal Haneke (ma anche di Jessica Hausner, quella di Lourdes) e all’epoca non fece niente per nasconderlo in quanto a cattiveria e sgradevolezza. Sette anni dopo Schleinze è tornato dietro la macchina da presa con Angelo, opera presentata in questi giorni in concorso al 36. Torino Film Festival e che vede nel cast anche la nostra Alba Rohrwacher.
Cinque protagonisti per tre capitoli
La storia, raccontata attraverso tre capitoli e cinque diverse fasi della vita del protagonista, è quella di Angelo Soliman, massone austriaco nato ad inizio del XVIII secolo e vissuto durante l’affermazione dell’illuminismo europeo. Ma Soliman non è un cittadino austriaco qualunque: da bambino è stato rapito in Africa, portato in Europa e venduto ad una contessa (Alba Rohrwacher). Attraverso un vero e proprio esperimento educativo, Angelo (Kenny Nzogang) viene “civilizzato” dalla duchessa agli stili e ai modi di corte europei. Da adulto (Makita Samba) diventa una sorta di tesoro esotico, ostentato e protetto, tanto da finire alla corte dell’Imperatore austriaco. Quando deciderà di sposare segretamente Magdalena (Larisa Faber), una giovane cameriera bianca, Angelo perderò tutto e sarà costretto, suo malgrado, ad entrare in una loggia massonica per continuare ad essere riconosciuto un cittadino pari al resto degli austriaci.
Un passato dal sapore presente
Utilizzando una stretta e quasi sempre immobile inquadratura a 4/3, Schleinzer mette in scena dei quadri impreziositi dal lavoro degli scenografi Andreas Sobotka e Martin Reiter e della costumista Tanja Hausner. Ma pur rifacendosi all’estetica convenzionale dei film in costume, il regista austriaco rilegge il biopic storico disarticolando le sue caratteristiche tradizionali. Da una parte avanza nella narrazione giocando per riduzione, mostrandoci solo alcuni frammenti della vita di Angelo Soliman che non restituiscono mai una visione globale dell’intera vicenda del personaggio e del contesto in cui si muove; dall’altra inquina l’ambientazione d’epoca inserendo, in un paio di scene, delle scenografie moderne in dissonanza con il contesto storico circostante. Quest’ultima del rappresentare il “presente nel passato” (o se preferiamo, viceversa) è forse la scelta più originale e interessante di tutto il film. Ci appare fin in una delle prime inquadrature quando vediamo un gruppo di bambini africani in fila, illuminati da dei modernissimi neon: uno di loro avrà il privilegio di essere accolto ed educato da una (mai così severa e detestabile) Alba Rohrwacher mentre gli altri saranno scartati e probabilmente resi schiavi. Il rimando esplicito è ad un occidente, antico ed attuale, che accoglie lo straniero solo se consente di lasciarsi assimilare, abbandonando la propria identità e le proprie radici. Ma non solo: per raccontare la vita di Angelo Soliman, Schleinzer utilizza cinque personaggi, cinque “Angelo” diversi: il primo di loro è in realtà un “Soliman mancato”, un ragazzino anch’esso battezzato Angelo ma che non sopravviverà ai primi quindici minuti di film. Un dettaglio, apparentemente marginale ma su cui però Schleinzer insiste molto, come a voler inaugurare una vicenda di migrazioni con il cadavere di un bambino. E anche qui il riferimento ai nostri tempi è fin troppo esplicito.
L’identità negata
Questo discorso sull’identità negata ritorna in svariate scene di Angelo. Schleinzer ad esempio utilizza il sonoro come arma di repressione: i canti e i cori delle feste di corte sovrastano spietatamente il silenzio esibito di Angelo, costretto fin da piccolo ad una incomunicabilità quasi fisiologica con il mondo che lo circonda. Anche da adulto, quando si trova di fronte ad un suo simile – presumibilmente uno schiavo che il Duca gli concede come “passatempo” per chiacchierare – Angelo rimane in silenzio, con una postura decisamente “respingente”: in fondo è condannato a rimanere in silenzio non solo di fronte all’elite che lo ha reso un privilegiato, ma anche di fronte alle proprie origini che in qualche modo gli sono state strappate. Nell’unico caso in cui Angelo cercherà di realizzare il proprio percorso di integrazione in modo indipendente – iniziando una relazione con la bianca Magdalena – il film assume improvvisamente caratteristiche dissacranti, stupide e perfino divertenti che stonano con il realismo grottesco dell’intera narrazione. Ma è solo un illusione: per il suo tentativo di emancipazione Angelo verrà “punito” dall’Imperatore con “la libertà”. Perché se Angelo è stato privato di una storia e di un’identità ed è sempre vissuto come un riflesso esotico assimilato dalla società viennese, la minaccia più grande è proprio renderlo libero da quella società di cui ormai dipende.
L’Africa stereotipata
Anche visivamente Schleinzer cerca di ricalcare questo vuoto fra Angelo e le sue origini perdute. La stessa Africa e i suoi echi sono mostrati ogni tanto da Schleinzer come immaginari stilizzati e stereotipati; sia quando vengono emulati durante gli spettacoli alla corte del Duca o dell’Imperatore, sia quando ne intravediamo a volte le sue rappresentazioni da parte della società viennese. Come quando un anziano Angelo (Jean-Baptiste Tiémélé) si sistema sorridente davanti ad un quadro raffigurante uno scorcio esotico di una presunta “Africa”, su cui però appaiono delle piramidi egiziane: il Soliman è ormai un vecchio senza identità che non sa riconoscere nemmeno il luogo da cui proviene. Non è un caso che, una volta morto, verrà poi imbalsamato e messo in mostra in un museo, con la salma addobbata come un indigeno africano. L’unico modo di “vestire” la propria identità perduta è da cadavere, all’interno di un’esposizione, essa stessa prodotto della cultura occidentale. Per una volta Angelo è africano, ma solo nel modo in cui lo vedono gli illuministi europei.
Certo, Angelo non è una visione per tutti gli stomaci: i (cercati e voluti) buchi narrativi, lo stile concettuale, la riduzione di una biografia storica ad un trattato di sociologia sono caratteristiche insidiose e vanitose che possono allontanare anche il più disponibile degli spettatori. Dopotutto a Schleinzer non interessa il personaggio storico di Angelo Soliman e non interessa farci conoscere davvero la sua vita: a Schleinzer interessa il cambio di paradigma che ha rappresentato questo corpo estraneo impattando nella società del suo tempo. Come Haneke ne Il Nastro Bianco indagava la genesi del nazismo, qui Schleinzer prova a fare la stessa cosa, ma con in testa l’attuale deriva xenofoba in Europa. E lo ribadisce in un finale volutamente crudele e affatto consolatorio in cui proprio quella vicenda lontana sembra bussare la porta al nostro tempo.