In ogni festival del mondo – soprattutto quelli che non ospitano solo prime assolute – esiste almeno un film come Mandy. Opere alla cui visione si arriva carichi di aspettative per il buzz che le ha precedute, ma delle quali per certi versi si sa molto poco: registi semi-sconosciuti, trailer evocativi e qualche titolone della stampa estera.
Ora prendete Mandy, presentato al Torino Film Festival 36. È perfettamente ascrivibile alla suddetta categoria. Un film che è già passato da Cannes e dal Sundance, premiato e incensato dalla critica come uno dei migliori film dell’anno. Esorbitanti voti su Rotten Tomatoes e su Metacritic, voci che girano e che dicono che questa sia la più grande interpretazione di tutta la carriera di Nicholas Cage, poi un trailer nel quale l’attore americano si vede legato e sanguinante, una musica che ricorda Stanger Things e una più generale cornice psichedelica che illumina tutta la pellicola nei suoi (infiniti) 121 minuti. E infine un regista gresco, Panos Cosmatos, del quale non si conosce nulla e di cui quasi nessuno ha mai visto nulla.
NICHOLAS CAGE E UN BAGNO DI SANGUE
La trama è ridotta all’osso: in una foresta americana, in totale armonia con la natura, vivono i due protagonisti: Red (Nicolas Cage) e Mandy (Andrea Riseborough). In questo locus amoenus, però, si è appena insediata una setta hippie di Mansoniana memoria, che rapisce la giovane protagonista. Red dunque dovrà salvarla e riportarla a casa, seminando violenza e spargendo sangue.
Un film come Mandy vive di atmosfere piuttosto che di narrazioni, di invenzioni stilistiche e musicali, di movimenti di camera e soprattutto di caratterizzazione dei personaggi. Lei, Mandy, passa le giornate sul divano a leggere: è la classica ragazza istruita che, negli anni della contestazione, ha deciso di lasciare la città per una vita bucolica. Lui, Red, è premuroso e perdutamente innamorato di lei e dell’ideale di vita nel quale la sta seguendo. Sono due personaggi monodimensionali, senza che ciò sia comunque un problema.
Chi invece dovrebbe conquistarci, sono i ‘cattivi’. Panos Cosmatos ha scritto i suoi antagonisti per essere come quelli di Lynch, originali e spaventosi in un modo non convenzionale. Nella mente del regista greco, probabilmente, gli adepti dovevano assomigliare al circolo di Laura Palmer di Twin Peaks, con i vari Bobby e Jacques, avversari spaventosi che somigliano a dei demoni più che a delle persone. Una scelta del genere, va da sé, è altamente rischiosa, e sfociare nel ridicolo è davvero semplice.
Ebbene, nel film di Cosmatos il problema non è il ridicolo, bensì la noia. Passata la sbornia iniziale derivata dalla musica dei King Crimson e dallo splendide inquadrature della foresta, Mandy si mostra per quello che è: una noia mortale. Essendo un revenge movie, per tutta la prima parte aspettiamo che arrivi la seconda, quella del sangue, delle colluttazioni e del trionfo del cinema di genere. Beh, nemmeno di quella salviamo niente (se non una scena).
PUÒ UN’UNICA SCENA SALVARE UN FILM?
Le intenzioni di Mandy sono molto buone. Cosmatos vuole raccontare due lati di un rimasuglio di cultura hippie degli anni ’80: la violenza delle sette e il pacifismo come reazione alla violenza. Tuttavia, mettendo subito i due mondi in conflitto, il senso del film si comincia presto a perdere. Svelate le sue carte, la pellicola si trascina a fatica come un animale morente per due ore.
C’è però una scena che passerà alla storia, che tutti i fan del fantasy (forse) hanno aspettato per anni. Nicholas Cage che forgia un ascia gigantesca, con una fisionomia originale. Tanto è fatta bene che sembra essere pronta per diventare un’arma in videogiochi come Dark Souls o Monster Hunter. Ci auguriamo che quei frames vengano ricordati dalle prossime generazioni, in quanto, senza di loro, Mandy sarebbe assolutamente da evitare.