Con quasi un centinaio di film all’attivo, Valerio Mastandrea si è guadagnato la fama di attore talentuoso e incredibilmente versatile, capace di portare un contributo decisamente importante a ogni pellicola cui partecipi. Dopo qualche raro precedente alla sceneggiatura, ora l’attore romano debutta alla regia, dovendosi inevitabilmente confrontare con aspettative piuttosto alte. Ride (questo il titolo del suo film, da non confondersi con l’action quasi omonimo di Jacopo Rondinelli) è stato presentato al 36. Torino Film Festival e ora arriva dal 29 novembre in sala con 01 Distribution, per riportarci alle atmosfere laziali ben conosciute da Mastandrea, ma con una protagonista riminese, la bravissima Chiara Martegiani, nella vita compagna del regista.
UNA STORIA DI LUTTO SENZA LACRIME
Per Carolina (la Martegiani) sono giornate terribilmente dure, o almeno dovrebbero: il suo compagno è appena morto in un incidente sul lavoro e ora lei si trova improvvisamente sola con un bambino di 10 anni. Mentre si avvicina il giorno del funerale, la comunità si stringe attorno a questa ragazza sfortunata che ha visto il proprio mondo crollare improvvisamente, eppure lei non riesce a elaborare il dolore. Come isolata in una bolla, non riesce a piangere né a provare nulla: sembra che tutto continui come prima. Lei, addirittura, ride.
La scelta di affrontare un tema lacrimoso come quello del lutto con un taglio tanto originale è uno dei grandi meriti del Mastandrea sceneggiatore (che scrive a quattro mani con Enrico Audenino), così come lo è quello di proporre diversi punti di vista per tre diverse generazioni. Mentre assistiamo a Carolina che si ritrova quasi a dover consolare amici e conoscenti che vanno a porgerle le condoglianze, seguiamo infatti anche il bambino ‘giocare’ a preparare le interviste da rilasciare ai giornalisti che saranno presenti ai funerali, nonché l’anziano padre del defunto passare lunghe giornate insieme ai propri premurosi amici. Tre modi di vivere il dolore nessuno dei quali risponde allo stereotipo, eppure tutti verosimili e legittimi.
RIDE: UNA DRAMEDY (QUASI) A CAMERA FISSA
Il tono della pellicola rispecchia bene l’idea del soggetto, e rimane per buona parte tanto leggero quanto malinconico: il mix ideale per una perfetta dramedy. Se molti degli interpreti in scena non deludono (tra essi anche il grande Renato Carpentieri), la confezione si attesta sempre su un buon livello. La mano registica di Mastandrea non è certo delle più dinamiche e se non fosse per il buon ritmo del montaggio, la scelta di affidarsi quasi perennemente a riprese statiche rappresenterebbe un problema in termini di godibilità. L’editor Mauro Bonanni però fa un lavoro più che egregio, e quindi rimane solo la questione di un linguaggio filmico piuttosto elementare, che non turberà certo i sonni dello spettatore generalista ma rappresenterà una monotona frustrazione per l’occhio più attento.
QUELLA NAÏVETÉ STUCCHEVOLE CHE ROVINA TUTTO
Ride, sin dalle prime battute, sembra convincere con il suo ben misurato connubio di dramma, impegno sociale e commedia, eppure vi è un punto di non ritorno in cui il film comincia a soffrire di problemi sempre più evidenti fino a un finale capace di vanificare le ottime premesse iniziali. Da quando Mastandrea introduce in modo irragionevole e forzatissimo una pistola nella storia (affidandola a un personaggio la cui interpretazione è a dir poco scadente), lo script sembra progressivamente andare a rotoli, e dopo qualche grosso buco di sceneggiatura si avvicina verso quello che dovrebbe essere il punto focale del pianto con una ridondanza di spiegoni e ripetizioni che fanno pensare che Bonanni avrebbe potuto lasciare almeno 10 minuti buoni sul ‘pavimento’ della editing room.
È però proprio nel momento di massima tensione narrativa che Mastandrea fa una scelta di grande carattere, evidentemente significativa di una volontà ‘poetica’, e che però fa collassare il tutto a livello di una naïveté disarmante, una ‘poesia’ di facile effetto e stucchevole, pari al livello di erudizione di un romanzo di Fabio Volo o Gramellini. Un momento perfetto per piacere a quella che una volta avremmo definito come la casalinga di Voghera ma capace di affossare un intero film, cui seguono una scelta più sbagliata dell’altra: da uno spiegone retorico affidato a un voice over, a un momento ‘onirico’ le cui battute hanno una raffinatezza intellettuale degna di un testo di Toto Cutugno, fino a un finale con tanto di sguardi in macchina che gela il sangue nelle vene per il suo cattivo gusto.
A Valerio Mastandrea va ovviamente riconosciuta l’indulgenza che si deve a chiunque abbia il coraggio di cimentarsi per la prima volta con la regia cinematografica, nonché un’ulteriore benevolenza come atto di gratitudine per le moltissime volte in cui con le sue performance ci ha emozionati o fatti divertire. Rimane il fatto che questo suo Ride finisce per rimanere una grande premessa con una pessima risoluzione. Sta allo spettatore scegliere se vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto; a noi resta in bocca il sapore sgradevole di quell’ultima mezz’ora.