Definire Banksy uno street artist è ormai riduttivo. Se infatti i suoi graffiti con stencil rimangono un saldo patrimonio non solo dell’arte di strada ma anche dell’immaginario collettivo contemporaneo, il suo stile sempre corrosivo si è evoluto negli anni, passando dalla perturbante esperienza di Dismaland al Walled Off Hotel, fino all’autodistruzione della Balloon Girl da Sotheby’s – di cui tanto si è discusso sui social.
L’identità di Banksy rimane incredibilmente sconosciuta nonostante le molte ipotesi (la più accreditata delle quali lo identifica in Robert Del Naja, fondatore della celeberrima band trip-hop Massive Attack), eppure questo genio senza volto è probabilmente riuscito più di ogni suo contemporaneo a segnare il discorso dell’arte contemporanea. Ma mentre Jeff Koons si arricchisce a suon di riflessi kitsch, Maurizio Cattelan si disinteressa progressivamente alle gallerie e Damien Hirst, al contrario, con i suoi tesori naufragati cerca spudoratamente la mercificazione, l’ignoto Banksy rimane necessariamente al di fuori del giro economico generato dalle sue opere, e la stessa proprietà delle medesime diventa oggetto di contesa tra privati ed entità pubbliche.
SEGARE VIA DA UNA PARETE UN’OPERA DI BANKSY? È LEGALE.
È proprio sull’interessantissimo terreno del mercato dell’arte che si muove L’Uomo Che Rubò Banksy, riuscito documentario di Marco Proserpio che dopo la presentazione al 36. Torino Film Festival arriva nelle nostre sale in distribuzione limitata l’11 e il 12 dicembre grazie a Nexo Digital.
La pellicola ha il grandissimo merito di rendere accessibile anche ai profani un dibattito ben noto agli appassionati d’arte, e cioè quello circa l’essenza della street art e il suo complicato rapporto con i concetti di mercificazione e conservazione. Per farlo concentra il suo sguardo proprio su Banksy, senza dubbio il più popolare degli artisti della scena contemporanea, e su una sua opera in particolare: Donkey Documents, un graffito inizialmente apparso a Betlemme raffigurante un soldato israeliano che chiede i documenti a un mulo.
Nata per denunciare l’occupazione della Palestina, in realtà l’opera ha presto suscitato i fastidi di diversi abitanti del luogo, che complice un po’ di ignoranza e un malinteso culturale hanno creduto che l’autore dello stencil volesse insultarli dando loro degli asini. In terre funestate dalla povertà non manca però anche chi ha un ottimo fiuto per gli affari, e così il documentario – dopo aver introdotto la grottesca e divertente figura del tassista-culturista Walid The Beast – ci racconta di come l’imprenditore Maikel Canawati abbia comprato per una miseria la baracca su cui era stata realizzata Donkey Documents e abbia poi fatto prelevare la parete interessata per venderla a una quotazione stratosferica all’estero.
Un delitto verso l’arte contemporanea, verrebbe da dire, eppure se di fatto per la legge Banksy è un vandalo e quindi un criminale, l’operazione compiuta da Canawati è perfettamente legale, così come lo è il ‘traffico’ di opere di street art che sempre più spesso vengono tolte dalla strada per finire in mostre e musei (quando va bene) o in collezioni private.
UNA MOLTITUDINE DI SPUNTI PER UNO STRAORDINARIO LAVORO DI DIVULGAZIONE
È incredibile come, in poco più di un’ora e mezza, Marco Proserpio riesca a riassumere molte delle più spinose questioni dell’arte contemporanea allo spettatore generalista, senza per questo confonderlo. Partendo saggiamente da una singola opera, che diventa il perfetto esempio per semplificare questioni tutt’altro che superficiali, il regista mette il pubblico a conoscenza della natura profondamente politica dell’arte di strada, del profondo rapporto che lega le opere ai luoghi d’esecuzione e di quale sia l’impatto che queste possono arrivare ad avere sull’economia locale – nonché sulla cultura.
Passando poi per la questione della riproduzione dell’immagine attraverso un fiorire incontrollato di merchandising, si arriva al tema caldo della proprietà dei suddetti originali, che per la legge generalmente è dei possessori degli edifici su cui vengono eseguiti i graffiti ma che il dibattito di settore vuole sempre più ricondurre alla sfera pubblica. Proserpio ci trascina quindi con forza nel terreno delle aste, delle gallerie e delle mostre: un vortice difficilmente gestibile e alla mercé di pochi facoltosi investitori, che snatura l’arte di strada – di suo difficile da autenticare – trasferendola con la forza in spazi istituzionali, e quindi privandola di quel legame col contesto che tanto conta nelle sue dinamiche.
Infine, per fornire un quadro ancor più completo e interessante, L’Uomo Che Rubò Banksy non manca di esporre le contraddizioni legate alla natura effimera dei graffiti: se un’opera d’arte diventa tanto importante da essere considerata patrimonio comune, è meglio che resti dove l’artista l’ha voluta e venga vandalizzata da graffitari di serie Z, rovinata dalle intemperie e trafugata illegalmente, o che qualche mercante senza scrupoli se ne appropri e si faccia carico di preservarla, garantendo che le generazioni future la possano continuare ad ammirare?
L’Uomo Che Rubò Banksy è un lavoro di semplice comprensione ma interessante anche per chi già abbia familiarità con il mondo dell’arte contemporanea, e con un linguaggio cinematografico scorrevole e accattivante documenta con grande lucidità un importantissimo spaccato della cultura contemporanea. Se è vero che l’arte è fatta per esser consumata nella sua visione, questo eccellente film non può che fornire a molti gli strumenti per comprendere meglio il peso di certe opere e magari leggere qualcosa di più dietro il gesto iconoclasta di una cornice che taglia a strisce la stampa di una bambina con un palloncino. La voce fuoricampo di Iggy Pop che commenta le immagini, poi, non può che essere un valore aggiunto.