Chi lo sa se mentre nel 2016 John Krasinki leggeva per la prima volta lo script sottopostogli da Bryan Woods e Scott Beck – che avrebbe poi riscritto e trasformato nel suo bellissimo A Quiet Place – sapeva quanto quella storia ricordasse un libro di un paio d’anni prima, Bird Box. Di certo sono in molti a notare una certa somiglianza ora che quel romanzo d’esordio di Josh Malerman ha ricevuto un omonimo adattamento cinematografico – appena distribuito in direct-to-streaming su Netflix per la regia di Susanne Bier (nota soprattutto per In Un Mondo Migliore nonché unica donna ad aver vinto sia Oscar che Emmy e Golden Globe)
BIRD BOX È IL PIÙ GRANDE SUCCESSO DI SEMPRE TRA I FILM NETFLIX
Come nell’horror con Emily Blunt, anche qui troviamo una famiglia che in un contesto post-apocalittico cerca di sopravvivere a delle misteriose creature predatrici ‘privandosi’ di uno dei sensi. La protagonista Malorie (Sadra Bullock) è infatti una madre che, coprendo perennemente gli occhi suoi e dei suoi figli, cerca di sfuggire a delle misteriose entità la cui vista è capace di manipolare la mente dell’osservatore tanto da portarlo al suicidio. In un montaggio alternato – proprio come accadeva nel libro – veniamo anche a conoscenza del passato della donna, dallo stretto legame con Jessica (Sarah Paulson) al periodo nel quale aveva affrontato la prima fase dell’apocalisse in casa con un gruppo di sconosciuti (interpretati tra gli altri da John Makovich, dal Trevante Rhodes di Moonlight, dalla Rosa Salazar di Alita e dalla Danielle Macdonald di Patti Cake$), fino all’addestramento alla sopravvivenza dei suoi bambini. Un mix che evidentemente desta l’attenzione del pubblico, dato che Bird Box è già il più grande successo di Netflix di sempre (nella prima settimana è stato visto da oltre 45 milioni di account).
A QUIET PLACE? BIRD BOX È VENUTO PRIMA (E RICORDA ALTRI FILM)
Bird Box, se non fosse per l’ingombrante paragone con il film di Krasinski, probabilmente avrebbe ricevuto un’accoglienza critica ben più generosa. A essere meticolosi, poi, dovremmo far notare ai più che in realtà il perenne senso di déjà vu che accompagna la pur apprezzabilissima pellicola della pluripremiata regista danese non è dovuto tanto al suddetto horror di pochi mesi fa, quanto a un altro paio di titoli post-apocalittici di un decennio addietro: The Road (2009), in cui un padre intraprendeva un viaggio disperato per provare a salvare il figlio, e E Venne Il Giorno (2008) di Shyamalan, in cui la fine del mondo arrivava tramite un’epidemia virale di suicidi. Due film successivi alla prima stesura del libro di Malerman (risalente al 2004) ma antecedenti la sua uscita in libreria; tanto somiglianti da portare lo stesso autore a preoccuparsene pubblicamente – soprattutto perché il soggetto era stato opzionato dalla Universal già un anno prima della pubblicazione, senza che poi se ne facesse niente.
Se però la storia di Bird Box è quindi vecchia di quasi tre lustri – sempre che non vogliamo chiamare in causa il mito di Medusa, dichiaratamente fonte di ispirazione per lo scrittore – e ci ricorda lavori già visti, non possiamo che apprezzare il lavoro fatto dallo sceneggiatore Eric Heisser e soprattutto il fondamentale contributo della regista Bier, dato che quello che era un fanta-survival tutt’altro che rivoluzionario è stato con poche correzioni trasformato in un significativo racconto allegorico dell’America di Trump e della nostra dipendenza dai social media; un horror certamente meno riuscito di Scappa – Get Out! ma altrettanto pregnante nel denunciare la difficile fase attraversata dall’Occidente (e non solo).
UN FILM DAL FORTE MESSAGGIO ANTI-TRUMPIANO
L’esercizio di individuazione di significati simbolici in un film è sempre decisamente rischioso, giacché spesso porta l’osservatore più incauto a riversare su una pellicola intenti cui gli autori originali nemmeno avevano lontanamente pensato. Nel caso di Bird Box però il messaggio politico è perfettamente sovrapponibile alla dimensione più superficiale, tanto da fugare ogni dubbio sulle reali intenzioni della pellicola.
Proprio come accade con il populismo reazionario di Trump, nel film troviamo degli Stati Uniti che devono fronteggiare una minaccia generata in Russia (qualcuno ha detto Russia-Gate? Fake-news?): un’incontrollata epidemia che, suscitando paura o facendo leva sulle debolezze delle persone, porta una nazione ad autodistruggersi un cittadino per volta, nella quale l’egoismo rischia di prevalere sull’aiuto reciproco e in cui ad avere una posizione di vantaggio sono dei folli che cercano di fomentare la disperazione altrui.
In questo contesto tutt’altro che confortante, qualcuno ancora si rifiuta con tutto se stesso di cedere al ‘mostro’ della manipolazione, eppure il germe della rovina alberga anche tra loro: è proprio tra i superstiti che infatti lo script propone la più esplicita chiave di lettura allegorica. Il personaggio di John Malkovich non è manipolato dall’esterno, ma rappresenta una ‘chiusura’ che incarna in nuce l’epidemia stessa: infatti arriva ad esclamare con grande teatralità che ha intenzione di rendere la fine del mondo “di nuovo grande” (con un chiaro riferimento allo slogan elettorale della campagna presidenziale di Donald Trump), è dipinto come «uno stronzo» che «dà sempre la colpa agli altri senza rendersi conto dei danni che fa» e che si oppone con tutto se stesso a ogni contatto con il «mondo esterno». Non manca addirittura una battutina sull’acconciatura del potus-convitato di pietra. Un’incarnazione dell’America ‘peggiore’, insomma, eppure al contempo il ritratto di un’America che non è completamente dalla parte del torto e può ancora redimersi (concetto fondamentale per evitare una divisione retorica e manichea tra statunitensi ‘buoni’ e ‘cattivi’).
NON SOLO TRUMP: I MOSTRI SONO I SOCIAL MEDIA
Se la metafora politica è più che esplicita, una dimensione ancora più interessante dello script di Bird Box è quella che entra nel merito e mette in diretta connessione lo strumento e il manipolatore, ricordando la massima di McLuhan secondo la quale «il medium è il messaggio». Con rimandi abbastanza espliciti , il film si scaglia infatti non solo contro una fazione elettorale, ma contro una condizione antropologica: quella che ci vede assoggettati a Facebook e alla comunicazione fallace e superficiale che ne viene veicolata.
Il personaggio di Malorie, mentre dipinge un quadro, non manca di ricordare che dietro la solitudine dei suoi soggetti (tutti illuminati dal basso, come dallo schermo di uno smartphone) c’è l’incapacità di creare connessioni umane, e quando le autorità invitano attraverso la televisione i sopravvissuti a mettersi in salvo, raccomandano di stare lontani soprattutto dai social media (una frase appena accennata che potrebbe sfuggire, ma che è fondamentale). Come se tale indicazione non fosse poi abbastanza esplicita, è reso evidente che le pericolosissime creature possono tranquillamente manipolarci anche attraverso lo schermo di un computer, usando solo «pixel e calore» – una scelta in controtendenza rispetto ai canoni dell’horror, ma estremamente significativa. Nessuna tentazione neo-luddista, però: se di certo i social media rappresentano un problema, viene da chiedersi se in questa rilettura i cinguettii degli uccellini vogliano in qualche modo suggerire che un uso oculato e consapevole delle piattaforme (magari di qualche ‘tweet’, che non a caso in inglese significa cinguettio) possa aiutare a combattere la disinformazione e i titoli ingannevoli.
UNA STORIA RIVISTA PER UN’INTUIZIONE POTENTISSIMA
La regia della Bier è sempre particolarmente efficace e il notevolissimo cast non può che apportare qualità all’insieme, ma è proprio il messaggio simbolico a prevalere su tutto, arrivando a nobilitare un lavoro impeccabile ma di certo non dal grandissimo carattere. Se non vi sono dubbi sull’apprezzamento degli abbonati Netflix (le cui preferenze vengono sempre assecondate in seguito a un’attentissima analisi dei big data), è però evidente che Bird Box risente di una release che arriva fuori tempo massimo, quando l’originalità iniziale si è persa per strada e lo fa sembrare l’ennesima iterazione di storie già viste – a scapito di una straordinaria ricchezza della sceneggiatura che rischierà di non essere compresa da molti.
È così che le due ore che potrete dedicargli non lasceranno forse un segno indelebile, ma passeranno comunque senza deludere, e soprattutto offriranno allo spettatore più consapevole solidi stimoli di riflessione e magari consoleranno qualche progressista sconfortato dall’attuale vento degli ultranazionalismi populisti con una ‘morale’ tutto sommato ottimista: anche se stentiamo a riconoscere il mondo cui eravamo abituati, aiutandoci a vicenda possiamo sconfiggere la paura e l’individualismo, e costruire un futuro prospero e accogliente per le nuove generazioni; magari scegliendo di renderci ciechi davanti alle fake news e al racconto manipolatorio della realtà che ci troviamo continuamente davanti agli occhi. Per l’America la traversata del fiume è iniziata da un po’, dobbiamo solo capire se abbiamo già superato le rapide.