Quando il professore di letteratura e scrittore di New Orleans (e di ovvia discendenza italiana) Nic Pizzolatto si rese conto che il suo secondo romanzo era più adatto al piccolo schermo che alle librerie, ebbe una delle più felici intuizioni della televisione moderna. Da quel lontano 2010, anno in cui siglò l’accordo con due dirigenti di Warner Media, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta e con gli anni si sono affievolite le speranze che il suo fortunatissimo True Detective potesse in qualche modo tornare a lasciare nuovamente un segno nella serialità contemporanea, soprattutto dopo una seconda stagione dall’esito decisamente deludente.
L’IMMENSO MAHERSHALA ALI È IL FULCRO DI TRUE DETECTIVE 3
Ora, a quasi un decennio di distanza da quando si decise di fare di quella storia un crime drama antologico per la TV (e a 5 anni dal debutto della prima stagione sul premium cable HBO), True Detective torna per un nuovo capitolo, in Italia su Sky Atlantic dal 13 gennaio in contemporanea con l’uscita americana.
Se la prima stagione aveva come mattatori Matthew McConaughey e Woody Harrelson e la seconda si affidava con più incertezze a Colin Farrell, Vince Vaughn, Rachel McAdams e Taylor Kitsch, questa volta il fulcro di tutto è l’immenso Mahershala Ali, che il pubblico televisivo ha inizialmente conosciuto come Remy Danton in House of Cards e poi nei panni di Cottonmouth in Luke Cage, ma che al cinema ha lasciato il segno con performance straordinarie in Moonlight e Green Book, guadagnandosi pure un Oscar e un Golden Globe. Un nome da solo capace di rappresentare già una garanzia della massima qualità possibile sul piccolo schermo (come sul grande).
LA TERZA STAGIONE: FRAMMENTI SPARSI IN TRE PERIODI
Se al centro della prima stagione trovavamo una coppia di protagonisti (con tanto di doppio piano temporale) e nella seconda la narrazione si faceva decisamente più corale, per il ritorno di True Detective Pizzolatto decide di recuperare una struttura simile a quella iniziale – fin troppo simile – incentrando in qualche modo la storia su due poliziotti e portando lo spettatore lungo tre linee narrative, ognuna in una diversa cornice cronologica. Il partner del protagonista, Stephen Dorff (Somewhere, Blade), arricchisce di certo l’esperienza narrativa, ma non c’è dubbio alcuno che tutta la storia sia imperniata su Wayne Hays, il personaggio di Mahershala Ali.
Siamo negli Ozark (la zona montuosa statunitense da cui prende il nome l’omonima serie Netflix con Jason Bateman) e sin dall’inizio al centro della storia c’è di nuovo un cold case, un caso irrisolto riguardante la sparizione di due bambini proprio negli altopiani dell’Arkansas. Wayne Hays (Ali) nel corso degli anni non ha smesso di essere ossessionato dalla vicenda, e lo troviamo che si confronta con il collega Roland West (Dorff) e l’insegnante Amelia Reardon (Carmen Ejogo), o anni dopo che cerca di processare un’esperienza che ha segnato la sua vita.
NIC PIZZOLATTO, I PROBLEMI INIZIALI E IL CAMBIO DI REGISTA IN CORSA
La qualità della realizzazione tecnica di True Detective non ha mai avuto incertezze, tanto che pure la vituperata seconda stagione vantava una direzione della fotografia mozzafiato e dei movimenti di macchina di assoluto impatto, e anche qui è quasi superfluo commentare la fattura di matrice cinematografica del prodotto. Quel che aveva incontrato qualche scoglio – insieme al casting – era invece proprio la scrittura di Nic Pizzolatto, tanto che al rinnovo del contratto (subito dopo il capitolo con Farrel e Vaughn) HBO aveva proposto di affiancare degli autori allo sceneggiatore principale, che però si era rifiutato.
Uno degli elementi giudicati fondamentali per il successo della stagione di debutto di True Detective era infatti la coppia creativa nata tra lo showrunner e il regista Cary Fukunaga, dietro la macchina da presa dalla prima all’ultima puntata e il cui apporto è stato fondamentale nel definire il successo della serie. Per questo nuovo installment Pizzolatto si è però rifiutato di compromettere la propria visione artistica, tanto che in un’intervista a Vanity Fair ha sottolineato quanto per lui non significherebbe nulla non poter esprimere qualcosa a un livello estremamente personale, e quanto questo funzioni a patto di non dover lavorare insieme a un ‘comitato’. Forse perché, aggiungiamo noi, lavorare con Pizzolatto non dev’essere proprio facilissimo.
La gestazione di True Detective 3 è infatti stata complicata sin dall’inizio, dato che, mentre lo script è sempre stato saldamente nelle mani dello showrunner (che solo in due puntate condivide i crediti con David Milch e Graham Gordy), la regia è stata sin dall’inizio oggetto di divergenze. Durante la realizzazione dell’episodio pilota è emersa infatti un’incompatibilità tra l’autore principale e il regista Jeremy Saulner (Green Room, Hold the Dark), che è stato presto allontanato dalla serie e il cui nome rimane solo nei titoli delle prime due puntate. A sostituirlo i produttori hanno chiamato Daniel Sackheim, un vero e proprio veterano della grande serialità televisiva, già dietro la macchina da presa in The Americans, The Leftovers, Game of Thrones, The Man in the High Castle, Better Call Saul e Ozark – tra le altre. Una delle novità di questa stagione di True Detective è però il debutto dietro la macchina da presa di Pizzolatto stesso, che si è tenuto per sé il cuore della stagione (le puntate 4 e 5).
UN GRANDE PROTAGONISTA PUÒ FARE GRANDE UNA STORIA IN QUALCHE MODO GIÀ VISTA
I problemi che avevano afflitto la precedente stagione di True Detective, come già accennato, avevano a che fare con le scelte di casting e una scrittura incerta se non propriamente problematica. La visione della stagione intera di True Detective 3 è stata preclusa anche alla stampa, quindi può permanere qualche dubbio su quale sarà l’esito finale della stagione, e rimane da vedere se ci sarà un compimento soddisfacente dell’arco narrativo principale e se la storia manterrà una sua integrità d’insieme.
Le somiglianze con la prima stagione – che pur mantiene una maggiore affinità col primo Fincher – sono evidenti, ma tra dissertazioni filosofiche, luoghi ostili, vite allo sbando e suggestioni simbolico-rituali, la ricetta risulta piacevolmente familiare. Quello che è certo è che, al netto delle grandi atmosfere create da fotografia, scenografia e montaggio sonoro, questa sia in tutto e per tutto la stagione di Mahershala Ali; un interprete d’eccezione per un personaggio la cui vicenda è a tratti più importante del caso criminale stesso – non sempre interessantissimo – e con esso si confonde, segmentata com’è tra le prime esperienze di un giovane detective del 1980 traumatizzato dal vietnam, la determinazione di un poliziotto nel 1990 e lo smarrimento di un anziano malato di Alzheimer nel 2015.
Con la sua straordinaria capacità di arricchire di sfumature i propri personaggi, con le grandi doti drammatiche e con un innato trasformismo, l’attore premio Oscar porta sullo schermo un Wayne Hays indimenticabile, che da solo basterebbe a dare prestigio alla serie e che non solo fa dimenticare qualche scelta infelice della seconda stagione, ma non teme il confronto con l’iconico Rust Cohle di Matthew McConaughey. E già quest’unica osservazione dovrebbe darvi l’idea della portata del prodotto davanti al quale ci troviamo; non perfetto (a volte procede troppo a rilento) ma di altissimo livello.
La versione doppiata in italiano di True Detective 3 sarà trasmessa su Sky Atlantic lunedì 21 gennaio alle ore 21.15, mentre quella in lingua originale sarà disponibile già da lunedì 13.