Una comunità di persone sole, incapaci non solo di valorizzare i rapporti con gli altri ma anche e soprattutto con se stessi, la propria intimità e la propria sessualità. Nina della regista polacca Olga Chajdas – già presentato in anteprima alla 47a edizione del Festival di Rotterdam e arrivato in Italia nella sezione competitiva del Fish&Chips – affronta la Polonia conservatrice con la lente d’ingrandimento della liberazione sessuale. Lo fa attraverso la storia d’amore – inaspettata e improvvisa – tra due donne, una già matura e borghese e una giovane della classe povera: la ricetta perfetta per innescare le contraddizioni culturali, classiste e generazionali dell’attuale società polacca.
Lei, lui, l’altra nella Polonia cattolica
Dopotutto il ritratto familiare alla base del film è quello di un matrimonio tradizionale, quello tra la trentenne Nina (Julia Kijowska) e suo marito Wojtek (Andrzej Konopka), che ormai si trascina tra noia, incomprensioni quotidiane e tensioni dovute soprattutto all’impossibilità per la coppia di avere un figlio. Ma Nina e Wojtek sono anche l’eco sociale chiarissimo di una classe media della Polonia sovranista, la stessa che discute l’approvazione di una legge durissima per punire l’aborto. E lo sono anche quando si mettono clandestinamente in cerca di una madre surrogata per concepire un bambino fuori dalla loro unione, qualcosa che farebbe la gioia della madre di Nina, cattolica devota. Che la scelta di questo utero in affitto ricada sulla ventenne Magda (Eliza Rycembel), giovane, libera e lesbica, ovviamente scatena conseguenze non previste – tra cui un’attrazione tra le due donne. Ma soprattutto per Nina l’epifania della propria omosessualità.
Una società fatta di solitudini
La Chajdas imbastisce dunque una storia di emancipazione femminile nella cattolicissima Polonia, rompendo muri culturali ma privilegiando l’eleganza delle scene unite da un distensione del racconto che procede lento e indolente. Una scoperta della propria identità sessuale che emerge, come dicevamo, in una comunità di persone abbandonate nella propria individualità: tante sono le inquadrature in cui volutamente la figura in campo è una sola, isolata dagli altri (e nel caso di Nina, anche da se stessa). In questo il film si presenta anche confezionato egregiamente: dopotutto la fotografia è del giovane e talentuoso Tomasz Naumiuk (che ha anche curato le scene polacche in High Rise di Claire Denis) e la Chajdas dimostra di saper dirigere bene, soprattutto nelle scene erotiche tra Nina e Magda, che sono come delle piccole esplosioni emotive ed umorali in questo panorama umano quasi glaciale.
Una sceneggiatura non convincente
Ciò che invece convince poco è tutto l’impianto narrativo del film: se la Chajdas è brava a restituire il rapporto tra Nina e Magda con la macchina da presa, non pare altrettanto capace di sviluppare la vicenda attraverso uno script che ne approfondisca davvero i risvolti più intimi e tormentati, nonostante le tante premesse della vicenda. Al contrario porta avanti la storia con un approccio sfocato, tentando qualche volta di creare degli spessori psicologici senza mai riuscirci e nascondendosi dietro quella bella confezione che le regala appunto Naumiuk. Di questo vulnus di scrittura ne risente soprattutto la Kijowska che, a differenza della Rycembelm, appare qualche volta in contropiede o in stati d’animo visivamente artificiosi, sfociando spesso nella pura teatralità.
Ecco allora che in oltre due ore di durata del film, tra divagazioni e ripetizioni, il rapporto tra Nina finisce per diventare sempre meno interessante e sempre più estenuante: un’occasione persa, perché un racconto sulla scoperta e la voglia di vivere la propria sessualità perde proprio quella spontaneità necessaria, a scapito di un’operazione attraente esteticamente ma poverissima di tensioni emotive.