Nell’estate del 1993 la piccola Frida (Laia Artigas), già orfana di padre, perde la madre senza conoscerne il vero motivo. Per questo poco dopo va a vivere dallo zio Esteban e sua moglie, che la adottano regolarmente, e diventa a tutti gli effetti membro di questa nuova famiglia. Nel bel mezzo della campagna spagnola, Frida trascorre le sue giornate in compagna della cuginetta Hanna, nei confronti della quale prova forse un’innocente invidia, mentre i genitori affidatari cercano in ogni modo di farla integrare nella nuova comunità, tanto diversa da quella di Barcellona a cui la piccola è abituata.
Carla Simón dedica il suo Estate 1993, che ora arriva in DVD su distribuzione CG Entertainment / Wanted, alla madre Neux, tratteggiando così un personalissimo e intimo racconto della perdita sotto un punto di vista che raramente troviamo trasposto al cinema. Abbandonando così ogni tipo di atteggiamento buonista, la regista catalana, al suo primo lungometraggio, porta in scena una piccola grande storia che parla di infanzia con la nostalgia e lo sguardo lucido dell’età adulta, senza però rinnegare quella parte bambinesca che tutti noi sappiamo di aver vissuto e che a volte facciamo fatica a ricordare. Frida è la metafora del percorso di formazione che deve necessariamente passare per l’elaborazione del lutto, perché crescere, in fondo, non è altro che la morte di qualcosa che non può tornare se non tramite il ricordo appassionato. La sofferenza che ne deriva è il normale processo di una natura che scorre senza potersi fermare, fino a quando finalmente si manifesta in un pianto improvviso, magari in un momento del tutto spensierato, liberandoci dal macigno del lutto e aprendo così la strada a una nuova maturazione e a una nuova vita.
Così Frida non può che sentirsi bloccata in questa grande casa di campagna, tanto lontana dalla vita di Barcellona, dove la vita scorre veloce e dove non mancano gli stravizi delle attenzioni dei nonni e delle altre zie. Il film respira allo stesso ritmo della vita a casa di Esteban, dove il tempo è dilatato, soffermandosi sui piccoli gesti della protagonista che immergono lo spettatore in quello stesso stato infantile, dove regnano anche l’incoscienza e la mancanza di inibizioni (molto spesso Frida compie azioni e fa domande sul dolore e sulla morte insinuando in chi guarda anche la paura che possa succedere qualcosa da un momento all’altro). Si fa avanti così lo sguardo nostalgico di un pubblico che sa che la crescita, la maturazione, il cambiamento psichico e fisico passano sempre per la sofferenza.
La regista allora utilizza sapientemente la macchina da presa in modo da rendere lo spettatore vero partecipe della storia: non semplice visione, ma vero e proprio viaggio sensoriale in un mondo del tutto privato e che cambia da persona a persona, dimostrando come un’esperienza cinematografica non sia solo una ricezione collettiva e di massa, ma può ancora essere metabolizzata privatamente al pari della lettura di un romanzo.
Ad accompagnare una regia che si alterna tra primi piani su Frida e larghi respiri sull’ambientazione circostante, una sceneggiatura talmente naturale da sembrare continuamente improvvisata: non ci sono dialoghi filosofici, né il dramma prende mai piede sul resto della storia, ma in maniera quasi istintiva, il pathos si costruisce lentamente per poi esplodere in un finale tenero e commovente.
A sorprendere davvero è l’interpretazione di Laia Artigas, giovanissima attrice di circa dieci anni, che nell’interpretare Frida – personaggio che invece è di poco più piccolo – riesce a tratteggiare davvero la figura di una bambina sperduta di fronte a cambiamenti tanto grandi: senza dare l’idea di esser stata aiutata passo passo dalla regista, ma calata perfettamente nella finzione, sprigiona una forza che solitamente appartiene agli attori con più esperienza. Quella di Frida infatti è una caratterizzazione accurata e complessa, immersa in un vasto contesto culturale di riti pagani tipici della campagna catalana in continuo contrasto con la religione cattolica ufficiale che la nonna materna cerca di impartirle, che ne determina le azioni e il rapporto con la dolorosa elaborazione del lutto della madre e quindi della crescita che ne deriva.
Presentato alla 67° Berlinale e scelto dalla Spagna per concorrere agli Oscar, Estate 1993 è un abbagliante esordio low budget che però testimonia il talento di Carla Simón ad entrare nelle pieghe della coscienza umana e lasciare un tenero segno nostalgico nello spettatore.