Presentato al Festival di Cannes e ora finalmente in home video Parthénos/Lucky Red/Mustang su distribuzione CG Entertainment, L’Albero Dei Frutti Selvatici segna un passo in avanti nella filmografia di Nuri Bilge Ceylan. Come ne Il Regno D’inverno, ma questa volta dal punto di vista di un giovane, il regista turco narra la ricerca della propria identità di Sinan Karasu (Dogu Demirkol): di ritorno nella sua casa di Can, villaggio situato nei pressi dei resti di Troia dove vive la sua famiglia, coltiva il sogno di diventare uno scrittore e desidera pubblica un manoscritto in cui racconta il mondo dal suo personale punto di vista. Sinan però deve fare i conti con i debiti accumulati dal padre Idris (Murat Cemcir) attraverso le scommesse sulle corse dei cavalli, con i creditori che gli mettono il fiato sul collo per ottenere la restituzione del denaro…
L’ALBERO DEI FRUTTI SELVATICI, LA CONTRAPPOSIZIONE VECCHIO-NUOVO
Il rapporto tra padre e figlio e la contrapposizione tra vecchio e nuovo al centro dell’ultimo lungometraggio di Ceylan: uno scontro generazionale in una Turchia immobile e impantanata nel conservatorismo religioso, in bilico tra tradizione e modernità proprio come il protagonista. A risolvere questo conflitto dopo tre ore immersive sarà la scena finale, con Ceylan che lascerà allo spettatore la possibilità di scegliere quale finale sia quello reale e quale quello desiderato. E nel mezzo de L’albero Dei Frutti Selvatici c’è tanto, ma non troppo: un film denso, ricco di stratificazioni come visivamente testimoniato dalla sovrimpressione in apertura del mare, riflesso su una finestra, sul volto di Sinan.
La lunghezza non comune del film non viene percepita, il ritmo rilassante trasporta lo spettatore in una narrazione piacevole e ricca di spunti: la sceneggiatura, firmata dallo stesso regista con Akin Aksu e Ebru Ceylan, è ricca di dicotomie intersecate che si rifanno sempre all’emancipazione dell’aspirante scrittore. Tentare di superare l’esame di stato per diventare insegnante o continuare a raccogliere il denaro necessario per pubblicare il suo romanzo? Puntare sulla sua visione dell’universo oppure scrivere una guida turistica come consigliato dal sindaco di Canakkale? O ancora: “subire” la realtà concreta o gettarsi sul desiderio di un altro destino?
FILOSOFIA, RELIGIONE E ETICA SI INTRECCIANO
Ogni incontro per Sinan è l’occasione per un aspro confronto: i dialoghi profondi proiettano il film in una dimensione letteraria, gli elaborati piani sequenza intrecciano filosofia, tradizione, religione e etica. Sublime il confronto tra il giovane e l’imam Veysel (Akin Aksu): il botta e risposta sul rapporto tra verità e parola ha una connotazione fortemente filosofica che sembra proiettare il discorso anche su sfondi non prettamente religiosi.
Non manca la denuncia politica, seppur resti tra le righe (annunciata ma non mostrata): è tracciabile nelle discussioni sul caos o sui conflitti sociale. O ancora quando si parla senza mezzi termini di “spaccare la testa ai giovani manifestanti”. La regia è sublime: predilezione per i campi medi e lunghi, riprese aeree e con camera a mano, riprese aeree e carrellate. La fotografia di Gokhan Tiryaki cattura i colori contrastanti della città e della campagna, con una netta prevalenza di rosso e arancione. Il commento sonoro viene utilizzato con parsimonia. Priorità assoluta alla parola.
L’Albero Dei Frutti Selvatici che fa riflettere senza dare risposte, parla di temi impegnati ma non annoia, ammalia visivamente ma non sconfina in lezioni di estetica: Ceylan firma un altro ottimo film e si conferma come uno dei migliori registi del panorama est-europeo.
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