Solo dopo aver concluso la visione di tutti i diciotto cortometraggi animati che compongono Love Death + Robots ci si accorge della portata del progetto di Netflix: un “cantiere” monumentale al quale per anni hanno lavorato diversi studi di animazione (l’ungherese Digic Pictures, il coreano Red Dog Culture House, il francese Unit Image e il Blur Studio), alcuni attori, molti registi, produttori esecutivi (fra i quali David Fincher) e creativi in generale. Il prodotto ideato da Tim Miller (regista di Deadpool e del prossimo Terminator) paga i difetti che per natura hanno le antologie: si finisce per giudicare gli episodi confrontandoli solo tra loro e le storie più deboli ci sembra che non funzionino proprio. Tuttavia, con Love Death + Robots avrete la possibilità di godervi uno spettacolo visivo unico e difficilmente imitabile.
LA DEFINIZIONE DI CINEMA DI GENERE APPLICATA ALL’ANIMAZIONE
Ogni episodio di Love, Death and Robots è dotato di piena autonomia: una trama che si conclude all’interno della puntata, dei personaggi propri e soprattutto uno stile di animazione diverso. Come dicevamo, lo spettacolo offerto dalla serie Netflix è unico e irripetibile: all’interno dell’antologia si trovano episodi in CGI e in motion capture (che nulla hanno da invidiare ai migliori videogiochi contemporanei), un episodio in stile anime, altri “semplicemente” costruiti con un classico 2D o 3D o con la stop motion. Troviamo infine un episodio nel quale convivono animazioni e attori reali.
Tim Miller e il suo team hanno ragionato sul senso del genere, inteso cinematograficamente come prodotto “in serie” nel quale si ripetono certe meccaniche e certi stilemi stilistici. Troviamo dunque in Love, Death & Robots un hentai – genere pornografico dell’animazione -, un paio di episodi nel quale l’umanità lotta contro della creature extraterrestri o il bellissimo Il vantaggio di Sonnie, dalle tinte cyberpunk. Ogni episodio, insomma, è un cortometraggio di genere e una delle cose più belle di questa serie è proprio l’uguale importanza che viene data ad ogni personaggio e ad ogni frame. Non esistono generi minori o maggiori: l’hentai vale come l’animazione nipponica classica e il più costoso motion capture ha la stessa dignità di un episodio con attori in carne ed ossa.
I PREGI DI UN ESERCIZIO DI STILE
Ciò che davvero è inattaccabile nel lavoro di Miller e Netflix è proprio lo stile, la fantasia e la cura delle animazioni. Per quello che concerne i contenuti, invece, oltre al già citato problema “fisiologico” delle serie antologiche, c’è da segnalare una certa “superficialità” di fondo. Se opere recenti come Blade Runner 2049, Arrival, Annientamento o Ex Machina risultano più profonde da un punto di vista tematico, sono più ‘filosofiche’ nell’approccio al futuro dell’uomo e soprattutto costruite su un individuo, Love Death + Robots non lo è. Miller ha pensato e supervisionato 18 esercizi di stile, intesi in questo caso nella migliore accezione del termine.
Personaggi di cui non sappiamo nulla si amano, fanno sesso, si uccidono, muoiono, rinascono, si incontrano e si trovano. Le trame sono ridotte all’osso e spesso presentano una divisone manichea che però qui funziona. Il piacere della visione di questa serie sta proprio nel vedere degli scontri e delle storie eterogenee così varie e ben animate. D’altronde, il rischio di un prodotto di genere è proprio questo: di provare una sensazione di ‘già visto’. Cosa che può capitare al cinema, coi libri, con i fumetti, con i videogiochi e persino con la musica.
Love Death + Robots è in un certo senso il progetto di animazione più ambizioso di Netflix fino a questo momento e, non a caso, arriva a pochi mesi da Roma, il progetto cinematografico più ambizioso. Al di là del budget e del numero di maestranze creative e tecniche messe in moto da Los Gatos, ciò che ci spinge a definire la serie di Miller come un progetto grandioso è legata alla dimostrazione di forza di questi diciotto episodi così diversi: l’animazione è l’unico ‘genere’ cinematografico senza alcun limite.