Direttamente dai vecchi cassetti dei genitori, quelli ancora pieni zeppi di album fotografici con le copertine di plastica un pò scolorite e l’indirizzo del fotoamatore di turno che ha sviluppato la pellicola, Brie Larson sembra tirar fuori uno di quei filmati a grana spessissima che in cinque minuti ripercorrono la storia dell’infanzia e dell’adolescenza – dai primi vagiti alla prima buca a scuola. Inizia così Unicorn Store, film d’esordio dell’attrice di Captain Marvel presentato all’Edinburgh International Film Festival e appena approdato su Netflix.
BRIE LARSON È UN’ARTISTA FALLITA CUI VIENE DATA UNA SECONDA CHANCE
Kit (Brie Larson) – che nella versione originale suona sempre simile a kid e non può non essere stata una scelta consapevole – è un’artista che è stata appena buttata fuori dall’accademia (probabilmente i motivi sono il suo anticonformismo e la mediocrità della sua arte). Kit è anche ossessionata dagli unicorni, dai colori pastello e dai glitter. Armata di scarpe e vestiti Adidas (ma anche di completi di dubbio gusto), Kit incarna perfettamente la millennial che conosce a memoria le corsie di Urban Outfitters e conserva ancora i suoi pupazzi preferiti. Convinta di essere un fallimento e una delusione per i genitori, la giovane, piuttosto depressa, cerca rifugio in uno dei tanti siti che promettono lavoro ad uno schiocco di dita. Trova così una posizione temporanea all’interno di un ufficio: quindi addio a capi estrosi, unicorni e glitter. Completo e capelli raccolti sono il nuovo dress code. Al lavoro però, tra una velata molestia da parte del vicepresidente e l’astio di alcune colleghe, Kit riceve alcuni strani e colorati biglietti: qualcuno la sta invitando a recarsi non ad un negozio qualsiasi ma da The Store, dove potrà finalmente comprare tutto ciò che desidera.
UNICORN STORE VUOLE ESSERE MAGICO MA SEMBRA PIUTTOSTO UN PO’ INFANTILE
Guardando Unicorn Store si rimane piuttosto confusi ma non sono solo i discutibili gusti estetici della sua protagonista a lasciare perplessi. Piuttosto è una sensazione più generica di sentirsi fuori posto. Come la presentazione di Kit in azienda per la pubblicità di un aspirapolvere che ha creato, la pellicola sembra un po’ troppo infantile per rivolgersi ad un pubblico di adulti – sì, per quanto possa essere difficile ammetterlo, i nati negli anni ‘90 sono ormai adulti – e un po’ troppo complesso per risultare appetibile ai bambini. Ma, allo stesso tempo, così come Kit porta avanti la sua presentazione credendo fermamente nel suo progetto, Brie Larson sembra non vivere come un problema la mancanza di un target ben definito.
Allo stesso modo, potrebbe essere difficile capire con precisione quale sia il messaggio ultimo del lungometraggio. Quella che per buona parte dell’opera sembra essere una metafora della felicità pura, spensierata, che ci caratterizza quando siamo bambini (rappresentata dall’unicorno che Kit aspetta con ansia), verso la fine della pellicola sembra invece trasformarsi in un ode all’auto-accettazione, come a dire che i sogni che avevamo da bambini possono essere abbandonati quando finalmente troviamo quella persona che ci ama e ci apprezza per quello che siamo. Unicorni, colori pastello e glitter inclusi. Non c’è alcun dubbio che un messaggio del genere sia sacrosanto ma allo stesso tempo tende a perdersi negli altri temi che Brie Larson sente la necessità di trattare, come il rapporto problematico con la famiglia o il senso di insicurezza e instabilità che attanaglia molte persone giovani.
SAMUEL L. JACKSON ANCHE QUI ‘FA COPPIA’ CON BRIE LARSON
Per quanto riguarda invece l’apparato tecnico, Larson sembra muoversi in modo piuttosto scaltro dietro la macchina da presa ricorrendo a sparute soggettive – mai a sproposito – e facendo ampio uso degli spazi scenici dimostrando un buon occhio per le inquadrature. Anche la recitazione non delude ma neanche stupisce: la Larson è perfettamente calata nel suo personaggio, Samuel L. Jackson (recentemente visto nei panni di un giovane Nick Fury al fianco di Captain Marvel) è perfettamente sopra le righe e a dir poco ilare nei panni del venditore, e i comprimari svolgono bene il compito di sorreggere l’intera struttura del film.
Così come la stalla per l’unicorno che Kit fatica a costruire, diventando però alla fine lo specchio della sua personalità, Unicorn Store nasce e muore come un prodotto piacevole senza molte pretese, forse troppo chiuso in una gabbia di autoreferenzialità per risultare appetibile a coloro che millennial non lo sono mai stati.