Presentato in anteprima nazionale al Lucca Film Festival e Europa Cinema 2019, Dollhouse: The Eradication of Female Subjectivity from American Popular Culture è uno di quei titoli che, parafrasando Jep Gambardella ne La Grande Bellezza: «sottende ambizioni». Il titolo del film scritto, diretto e doppiato da Nicole Brending somiglia infatti a quello di un saggio accademico o di un corso universitario in qualche college americano. Purtroppo, alla fine dei conti Dollhouse non è altro che un pretenzioso e saccente esempio di cinema art-house.
Il film della Brending racconta la storia di Junie Spoons, una popstar fittizia che comincia la sua carriera in giovane età e passa attraverso ogni tipo di stereotipo possibile immaginabile. Fra cambi di orientamento sessuale, relazioni combinate con cantanti famosi e sextape diffusi contro la propria volontà, la carriera della Spoons procede per alti e bassi. Se questa storia, che occupa la prima parte del film, è “solo” noiosa, la seconda è semplicemente irritante. Gli ultimi 30 minuti di film raccontano infatti di un uomo che decide di diventare una donna e sottoporsi a svariati interventi per assomigliare alla Spoons, il tutto senza sfruttare veramente nessuno degli spunti offerti dall’intuizione narrativa.
La cosa interessante di questo film è che è girato interamente con delle bambole; attenzione però: non si tratta di un’opera in stop motion, dal momento che le bambole sono ferme e immobili (ogni tanto vengono mosse da dei fili o da una mano) e doppiate da un numero ristretto di attori e attrici ben poco capaci. Mentre le “bambole” protagoniste e la scenografia nella quale si muovono è prodotta con gran cura.
Come dicevamo, il problema principale di Dollhouse: The Eradication of Female Subjectivity From American Popular Culture, al di là di una scrittura monotona e abbastanza povera di idee, è proprio l’ambizione con la quale si propone. Vuole essere un saggio sul femminismo, sulla condizione della donna e della popstar nel nostro secolo. Junie Spoons è una giovane star mondiale dalla quale tutti vogliono guadagnare qualcosa: la madre, i fidanzati, il manager e così via. Una star piena di eccessi, che vive una vita sregolata e che fa video nei quali mostra sovente il suo corpo.
Il film si dilunga a mostrare questi stereotipi, cercando di strappare una risata senza riuscirci mai. Le battute non fanno mai ridere e, anche se vorrebbero di cattivissimo gusto e scorrette (come quelle di South Park, per intenderci) risultano alla fine trite e ritrite. Dollhouse: The Eradication of Female Subjectivity From American Popular Culture procede dunque per luoghi comuni, cercando disperatamente di dimostrare di essere un film intelligente e provocatorio. Nicole Brending, tuttavia, non riesce a trovare una tesi convincente e una conclusione logica alla storia di Junie Spoons; anzi: negli ultimi trenta minuti la protagonista scompare e la storia cambia completamente, peggiorando ulteriormente. Dollhouse è esattamente quel genere di film che guarda lo spettatore dall’alto al basso, sfoggiando una malintesa “superiorità intellettuale” che è tipica del peggior cinema art-house.